Carla Sozzani è una figura chiave della moda contemporanea e ha trasformato editoria, retail, stile e arte. Ha iniziato la carriera nell’editoria lavorando per Cherie Moda, Vogue ed Elle, per poi collaborare a stretto contatto con designer iconici come Romeo Gigli e Azzedine Alaïa.
Fondatrice del primo concept store al mondo, 10 Corso Como, e della Galleria Carla Sozzani, ha rivoluzionato la fruizione di moda e arte, ridefinendo allo stesso tempo l’urbanistica di Milano. Oggi si dedica alla Fondazione Sozzani, continuando a promuovere la conoscenza, la fotografia e la moda.
Partendo dal libro “Carla Sozzani: arte vita moda” percorriamo le tappe fondamentali della sua carriera, fatta di incontri unici e progetti memorabili, tutti alimentati da una naturale e costante curiosità.
I linke dell’episodio:
– La Fondazione Sozzani https://fondazionesozzani.org
– La Fondation Azzedine Alaïa https://fondationazzedinealaia.org
– Il libro “Carla Sozzani: Arte vita moda” di Louise Baring https://www.ippocampoedizioni.it/libro/9788867229383
– “Il giovane Holden” di J. D. Salinger https://it.wikipedia.org/wiki/Il_giovane_Holden
PF: Sono Paolo Ferrarini e questo è Parola Progetto.
Parola Progetto è un podcast di dialoghi con persone che vivono di progetti, dove si racconta il design in tutte le sue forme, senza oggetti e immagini, solo attraverso la parola.
Ed eccoci qua.
Non capita spesso di trovarsi di fronte a una persona che con il suo lavoro è stata in grado di cambiare radicalmente il suo settore. Ancora meno capita di incontrare persone che l’hanno fatto trasformando non una, ma più dimensioni. E oggi sono particolarmente fortunato perché sono con Carla Sozzani, una figura chiave della moda contemporanea, in Italia e all’estero, che con i suoi progetti ha definito l’editoria, il retail, lo stile e l’arte.
Nata a Mantova, è cresciuta tra Milano e Torino, ma è a Milano che ha iniziato a lavorare giovanissima nell’editoria, prima a Cherie Moda, poi a Vogue e Elle. Abbandonata la carta stampata, ha contribuito alla crescita e all’affermazione di due stilisti entrati nel mito, ovvero Romeo Gigli e Azzedine Alaïa. Con 10 Corso Como e Galleria Carla Sozzani, ha definito un modo nuovo di fruire e vendere la moda e l’arte, creando il primo concept store al mondo, con un format che, come è stato detto molte volte, è stato costantemente replicato, ma mai eguagliato. Non solo, aprendo questi spazi, ha cambiato volto a una porzione considerevole della città di Milano.
Oggi si dedica completamente alla fondazione che porta il suo nome, dalla quale continua a nutrire le sue passioni, conservando la memoria e promuovendo una moda che sia in grado di affrontare il futuro che ci aspetta.
Ciao Carla, benvenuta a Parola Progetto.
CS; Ciao Paolo, buongiorno.
PF: Allora, partiamo dalla fine.
CS: Sì.
PF: Oggi siamo nella sede della Fondazione Sozzani, in particolare nella biblioteca, circondati da migliaia di libri. La Fondazione oggi si trova in un maestoso spazio ex-industriale nel quartiere Bovisa di Milano. Cosa accade in queste stanze? Cosa succede attorno a noi?
CS: Adesso credo che sono arrivata a un punto della vita dove devo dare quello che ho imparato. Cioè vorrei poter adesso condividere con le nuove generazioni – ma forse neanche nuove, non giovani particolarmente -quello che ho imparato, perché sono stati anni in cui ogni giorno ho imparato qualcosa di nuovo e ora mi piacerebbe condividerlo, trasmettere.
PF: Certo.
CS: Quindi questo luogo dovrebbe essere, mi auguro che diventerà un luogo di trasmissione.
PF: Perfetto. Quindi non è solo un luogo espositivo o una biblioteca, succede molto altro.
CS: Sì. [C’è] tutta la parte educativa che adesso per esempio abbiamo cominciato a fare anche con mia figlia Sara, di fotografie, facendo i corsi di fotografia, anche di moda, ma non con tante persone, non è una scuola. Quello che vorrei fare è una cosa più one to one, persona a persona, perché penso che è così che possa veramente formarsi una persona, perché ci si può confrontare e poi non avere paura. Cioè la scuola tante volte ti [spaventa]. E c’è quasi un dialogo tra persone che si possono aiutare.
PF: Certo. Un altro progetto molto recente è il libro “Carla Sozzani, arte, vita, moda“ che è uscito pochi mesi fa. Ripercorre per la prima volta tutto il tuo percorso professionale e non solo. Come dice il titolo, c’è anche tanta vita. Per la prima volta hai superato la tua proverbiale riservatezza e hai raccontato molte vicende, molto personali, a volte anche molto dolorose. Partiamo dal titolo “Arte, vita, moda“. Perché hai scelto questo ordine di questi tre elementi?
CS: In realtà l’ha scelto la Louise Baring che è la scrittrice, però dopo tanti titoli diversi sembrava [giusto] senza virgole, perché le tre cose si sono talmente mescolate nella mia vita, per cui forse io non mi rendevo neanche conto. E invece Louise, che è veramente stata molto brava, l’ha sintetizzato in poche parole.
PF: Sì, devo dire che mi associo ai complimenti perché i testi di questo libro sono molto precisi. È riuscita a trovare anche un tocco dolce, molto netto, molto poetico e a me ha ricordato tantissimo una fotografia in bianco e nero. Probabilmente sono influenzato anche dal fatto che ci sono tante fotografie in bianco e nero – che sono una delle tue grandi passioni – ma è riuscita a fare un ritratto quasi fotografico.
CS: Sì, e poi lei non è una giornalista, una scrittrice di moda. Tra l’altro aveva fatto il libro, scritto il libro di Dora Maar, di Parkinson. È molto fotografica lei e voleva in realtà delineare un po’ la storia dell’Italia, i cambiamenti sociali e della moda, ma non solo della moda che sono arrivati in questi ultimi 50 anni. È stato interessante perché non era solo per parlare di me, ma lei voleva un po’ vedere quello che era successo e i cambiamenti.
PF: Infatti nel libro si parla del ’68, si parla della moda contemporanea, si parla tanto anche della società, di come è cambiata l’arte, di come è cambiata la fotografia. È vero, ci sono tutte [queste cose], è quasi come se fosse una cronistoria parallela tra le tue vicende e quelle del resto del mondo.
CS: Quello era il suo desiderio, credo che è così che mi ha convinto. Poi ci abbiamo messo, lei dice 7 anni, io dico 4 o 5, però parecchio tempo.
PF: Come l’avete sviluppato? So che avete fatto delle interviste, giusto?
CS: Sì, solo interviste a Milano, a Parigi, tanto, poco a Londra (lei vive a Londra) quindi un po’ la distanza, un po’ perché non le abbiamo mai fatte in Zoom o al telefono. Poi c’è stato anche il Covid e poi ogni tanto io dicevo “no, non lo voglio più fare“.
PF: Per fortuna l’avete fatto.
CS: E alla fine è stata lei, perché è stata veramente estremamente paziente. È così brava che mi ha fatto dire delle cose che pensavo non avrei mai raccontato a nessuno. Tutto merito suo.
PF: Torniamo un pochino indietro. Da mantovano non posso non chiederti di dedicare qualche istante ai tuoi ricordi di Suzzara, dove hai passato i primi 8 anni della tua vita. Raccontami.
CS
Tanti sono i ricordi di Suzzara. La nebbia sicuramente, poi il ponte, il ponte sul Po, che era dopo la guerra, era sulle barche, che era meraviglioso questo andare sulle barche. Per noi andare a Mantova, da Suzzara, perché siamo state battezzate a Sant’Andrea, ma il fatto di questo viaggio sul ponte sulle barche e poi la nebbia e i tabarri, le nevicate, c’erano delle nevicate a Mantova, a Suzzara. Poi il giardino, il giardino con la frutta dove noi ci arrampicavamo con gli amici. Poi c’è stato anche il periodo, perché abitavamo nella fabbrica dell’OM, proprio dentro, quindi quando ci sono stati dei problemi di scioperi, di cose, di polizia, anche dei ricordi a volte un po’ violenti.
PF: Certo, perché tuo padre era il direttore dello stabilimento.
CS: Mio padre era il direttore dello stabilimento, sì.
PF: Ed era un grande appassionato di fotografia.
CS: Sì, lui aveva la camera oscura, aveva questa macchina fotografica, si chiamava Baldinina, che ho. Quindi si era fatto una camera oscura e si stampava lui le foto. Forse da lui ho preso anche questa passione dell’immagine.
PF: Certo. Invece sono proverbiali i tortelli di zucca preparati da tua mamma Mina, che da quanto racconti nel libro sono stati anche molto apprezzati da Richard Avedon.
CS: Sì, veramente. Non sapevo che gli piacessero così tanto. Mia mamma sapeva fare una cosa sola, che erano i tortelli di zucca. E quindi la domenica quando andavamo a mangiare da lei, se era stagione, c’erano i tortelli di zucca. E Avedon era a Milano e Franca e io l’abbiamo invitato dalla mamma. E lui apprezzò tantissimo. Intanto forse anche stare in una casa vera, perché quando sei straniero in un’altra città, è raro che ti invitino a casa, no? Sempre in ristoranti o alberghi. Quindi era molto contento dall’atmosfera familiare e dai tortelli.
PF: Hai vissuto qualche anno anche a Torino, tra il ’58 e il ’66, e lì hai scoperto la moda, o perlomeno hai scoperto un tipo di moda che era un po’ diverso rispetto a quello a cui eri abituata?
CS: Sì, perché in realtà la moda non la conoscevo. Frequentavo le Marcelline e poi a Torino l’[Istituto] Adorazione Perpetua del Sacro Cuore di Gesù. Quindi eravamo sempre in divisa, ero sempre in divisa, con il grembiulino bianco e il vestito blu. A Torino ho conosciuto due amiche, sono stata per brevi anni, ma che sono rimaste amiche tutta la vita. Una di queste aveva un negozio di abbigliamento. Sua sorella era un’appassionata di moda. E quindi lì cominciai ad avere i primi desideri di avere dei vestitini. Poi ero giovane. In quel periodo Torino, forse ancora oggi, è molto conservatrice. Quindi i primi vestiti furono veramente vestitini di lana e seta, al ginocchio, con le perle. Molto torinese anche.
PF: Li compravate in boutique o li facevate fare?
CS: C’era un negozio, si chiamava Maria Cristina, che cominciava a fare un pochino di prêt-à-porter. Però se no, li facevamo dalla sarta. Perché i tempi di grande cambiamento non arrivavano dopo. C’era la sarta, o la sartina, dipendeva dai mezzi.
PF: Nel ’66 poi tornate definitivamente a Milano. E da allora non ti sei più mossa, a parte i viaggi, ma casa è sempre stata Milano. Tu riesci a immaginare una città diversa da Milano, nella quale avresti potuto realizzare il tuo percorso professionale?
CS: Penso di no, anche se sono molto affezionata a Parigi. Ora, anche se ho abitato a Londra per diverso tempo. Penso di no, perché Milano ha una dimensione umana. E ho sempre trovato che, da un punto di vista anche culturale, anche se molte persone si lamentano, però non so, dà molto se uno vuole vederlo. E poi ha una qualità della vita più tranquilla. Puoi lavorare molto, ma non è frenetica come tante altre città. Perché a me piace un po’ la calma. Non sono esagitata, no. Città come New York, non sono per me.
PF: Hai citato Londra, che è stata una città molto importante per te, anche dal punto di vista professionale. Hai iniziato ad andarci per perfezionare l’inglese, ma ci sei tornata tante volte e hai avuto modo di incontrare personaggi chiave per la formazione del tuo occhio e del tuo approccio alla moda.
CS: Sicuramente Willy Landels, che era il direttore di Queens, Harpers & Queen, che era un giornale molto importante allora in Inghilterra. E poi soprattutto era un uomo di un’estetica un po’ stravagante. Portava questi grandi scialli paisley, che ho scoperto con lui, perché non sapevo neanche cosa fossero le quattro stagioni dei Paisley, erano sconosciuti. Poi aveva un senso dell’ironia, un distacco dalla moda, un gran signore, cioè lui mi ha aiutato tanto a capire l’importanza dei giornali di moda. Poi c’è stato Vern Lambert, che con Anna Piaggi, perché Anna Piaggi per me è stata molto formativa in Italia, però Vern Lambert, che era il suo amico, compagno di viaggi di vintage a Londra, aveva questo negozio in King’s Road di vintage. Così ho capito come potevi mescolare il vintage con i vestiti nuovi. Cioè tutta un’estetica che altrimenti non avrei conosciuto così giovane.
PF: Certo, è sempre stata molto presente l’estetica vintage associata alla grande sperimentazione, è una delle cose che mi vengono in mente in tutte le cose che hai fatto dalla fotografia alla moda, al retail, e arriva da lì.
CS: Sì, sicuramente gli anni, chiamiamoli, ’60, ’68, ’70, gli anni lì sono stati molto formativi per mescolare, ma non solo i vestiti, un pochino tutte le cose che vedevo, tutte le discipline, se vuoi chiamarle così, e metterle insieme. Non mi sono mai affezionata a una cosa in particolare, ma mi è sempre piaciuto vedere più cose nello stesso momento. Penso che sia forse da quel periodo lì.
PF: Sì, perché molto spesso, soprattutto nella moda, ci sono due direzioni, no? O quella più nostalgica, conservativa, o quella invece più per l’avanguardia, per la trasgressione, eccetera. Ma per te sono… cioè guardare avanti e guardare indietro è una direzione.
CS: Sì, non sono mai stata neanche ossessionata da questo in e out, è di moda, non è di moda, secondo me. Quando qualcosa è bello per te, ovviamente, ma è senza tempo, è un passato ma è anche il futuro.
PF: Certo. Una cosa che mi ha fatto molto sorridere nel libro è il tuo rapporto con le borse, che da un lato non ci sono perché tu le indossi poco
CS: Quasi mai
PF: E dall’altro invece in quegli anni tu e le tue amiche prendevate le borse di Gucci per distruggerle.
CS: Per distruggerle, sì, perché non era a quei tempi… Sempre dalla mia amica, in realtà, Luciana Romano, avevo imparato dalla sorella, che era amicissima di Piaggio, c’era il castello di Piaggio a Paraggi, e questa signora stupenda, super elegante, che era la moglie di Umberto Agnelli ai tempi, aveva questa passione per distruggere le borse, che ci ha subito trasmesso, ovviamente, perché non era chic andare in giro con una borsa nuova, ovviamente. Poi c’erano gli sterrati della Liguria, poi avevo preso la patente, quindi avevo la 500 con la doppietta, e semplicemente due cose insieme, la borsa con la corda, la doppietta e la 500, cioè tu capisci che era stupendo.
PF: Certo, per cui attaccavate le borse alla macchina…
CS: Certo, e poi andavamo nelle sterrate, nelle stradine, e poi avevamo tutte contente, poi le lucidavamo, perché così era perfetta e aveva tutti i suoi graffi. Ma anni dopo, Tom Ford fece una collezione così. Credo di essere stata una delle pochissime persone a capire da dove veniva.
PF: Parliamo invece del tuo ingresso nel mondo del lavoro, a Cherie Moda, una rivista che ora non esiste più, che aveva tra l’altro, leggevo, una tiratura di 250.000 copie.
CS: Sì, che oggi non esiste.
PF: Sono inimmaginabili. Ti sei occupata di molte cose all’interno di questa rivista, della redazione. Hai iniziato da stagista, da apprendista, e poi hai fatto organizzazione di servizi fotografici, lo styling, prima ancora che si chiamasse styling probabilmente, sfilate, seguivi le sfilate, non so, penso addirittura [a quando] parli della Sala Bianca, delle sfilate fiorentine, meravigliose. Poi ovviamente rapporti con i fotografi, con la scrittura, fino ad arrivare poi alla direzione. Quali sono le lezioni più importanti che hai imparato in quegli anni?
CS: Sicuramente fare tante cose allo stesso tempo, perché la Cherie Moda aveva 7, 8, 9 riviste, adesso non ricordo, io mi occupavo di tutte poi, dalla cucina all’alta moda, dal tricottare, la maglieria, però con tutti i punti, la spiegazione dei punti, cartamodelli. È stato molto formativo, per cui nello stesso giorno, stesso tempo, facevo tante cose tutte insieme. Poi mi ha anche aiutato dopo, quando sono andata a Vogue, perché ho continuato anche lì. Facevo tanti numeri, tutti diversi: bambino, sposa, gioiello, pelle, shopping, e mi ha sicuramente formato, ho imparato a fare tante cose simultaneamente. Infatti mia figlia dice che non ascolto mai.
PF: Perché devi fare.
CS: Perché sto facendo già un’altra cosa.
PF: Poi nel ’79 arrivi in Condé Nast, dove sei rimasta anche lì per diversi anni, e sei arrivata a dirigere Vogue Italia Bambini, e Vogue Italia Shopping, anche lì insomma, facevi tante cose diverse. È stato un passaggio grande? Nel senso del modo di lavorare in un posto o nell’altro.
CS: È stato molto diverso, perché a Cherie Moda non c’erano i mezzi di Vogue, e quindi comunque, anche se lavoravo con Alfa Castaldi, facevamo tanti viaggi, facevamo tante cose, comunque era meno aperta la situazione, ovviamente, della Condé Nast. E quindi ebbi la fortuna di poter lavorare, negli anni di Vogue, di poter chiamare qualunque fotografo. E tu chiami e solo dici “Vogue”, e tutti vengono, giusto? Invece quando ero a Cherie Moda, io mi lanciavo, chiamavo Guy Bourdin, chiamavo tutti, però non sempre la risposta era positiva. Mentre con Vogue, sì, quindi lavorai con Mapplethorpe, anche con fotografi che non erano strettamente di moda, e Bill Silano, Hiro, Bruce Weber, Herb Ritts, non so, Andy Warhol, Keith Haring, quindi è stato un periodo fantastico, dove ho potuto incontrare tante persone super interessanti, che poi, anche più tardi, quando ho aperto la galleria, hanno continuato a seguirmi come David Bailey.
PF: Allora, io mi chiedo, ma in quegli anni, voi, dico voi in tesi, cioè te e anche tutti i tuoi collaboratori, tutte le persone che ti stavano attorno, colleghi, anche magari concorrenti, avevate la percezione della grandezza delle cose che stavate facendo?
CS: Ovviamente no. Cioè perché quando stai facendo una cosa, la stai facendo perché ci credi, e poi la fai con una tale passione che non stai a riflettere cosa stai facendo, se lascerai un segno, non lascerai un segno, no? Perché lavorando nei giornali, in realtà la cosa bella è poter comunicare, e quindi il desiderio di poter trasmettere, di poter… che qualcun altro guardi quello che per te è bello, e lo trovi bello. Fare un’immagine che tu ritieni sublime, o far scrivere un articolo, che poi potrà far pensare o riflettere, cioè quello è fantastico. Quindi in quel momento che tu crei un giornale, ne fai la sequenza, o l’equilibrio, dici questo è per questo numero, questo è per l’altro, e lo pianifichi, pensi solo a fare qualcosa che possa essere comunicato e che possa trasmettere qualche emozione. Non stai a pensare se stai cambiando un linguaggio o no.
PF: Certo. Dopo Vogue, sei passata a Elle. Tra l’altro è stata un’esperienza brevissima, ma potentissima, perché hai fatto tre numeri…
CS: E un quinto!
PF: Tre numeri e un quinto. Tra l’86 e l’87. Per cui sei arrivata per lanciare un giornale che ancora in Italia non c’era, per cui insomma era l’edizione italiana del gloriosissimo Elle. Cosa è successo in quei tre numeri, in quei pochi mesi, mi vien da dire?
CS: Sì, allora con Paolo Roversi avevamo deciso che sarebbe stato il più bel giornale del mondo. In questo caso sì, avevamo un progetto bello chiaro. Sarà il più bello giornale del mondo. Io ero felicissima perché Vogue era fantastico, però erano solo pagine di moda e poi aveva preso il sopravvento la pubblicità. Per cui ormai era diventato molto complicato, dovevi dare tre pagine di pubblicità, tre pagine redazionali, era diventato una cosa un po’ contabile. Quindi sognavo questo giornale dove avrei fatto i famosi 360 gradi, dalla cucina ai cartamodelli, mi ricordo Lacroix mi diede del cartamodelli. Lacroix in quel momento era famosissimo. E quindi Gaultier anche, Azzedine Alaïa, e quindi era proprio… potevamo chiamare tutti i fotografi, Steven Meisel, Bruce Weber, Peter Lindbergh, Paolo Roversi, lui ovviamente. E l’illustratore Mats Gustafson. E invece fu licenziata per lo stesso motivo per cui era andata via da Vogue. Cioè… molti grandi stilisti non erano d’accordo con la direzione che avevo del giornale, quindi minacciarono di togliere la pubblicità, non solo a Elle, ma a tutta la Rizzoli. E quindi io fu licenziata.
PF: Quindi i 360 gradi facevano paura.
CS: Sì, forse anche, credo, il fatto che io fotografassi molti [francesi] in quel momento a Parigi c’era una grande effervescenza. C’era Comme des Garçons, Yohji [Yamamoto], Gaultier, Sybilla. Succedevano… cioè c’era un’effervescenza che in Italia era meno forte. E quindi penso che fu quello il motivo, in realtà.
PF: Poi, nel ’87, dopo aver lasciato Elle, ti dedichi invece a un nuovo progetto che è più operativo, diciamo, nel mondo della moda, che era la crescita di Romeo Gigli. E inizi a frequentare Corso Como al numero 10.
CS: Sì, giusto.
PF: Perché frequentavate per una trattoria, poi è comparso un cartello “Affittasi“, per cui per una serie di casi della vita sei arrivata al numero 10 di Corso Como. Mi chiedo, in quegli anni, in quel progetto, quanto è stato importante il luogo, lo spazio, per far partire quella nuova avventura?
CS: Sicuramente [era] lo spazio che volli io, assolutamente, perché mi ero innamorata follemente del garage, perché in quel periodo io passavo molto tempo a New York, fotografando continuamente. Quindi vidi questo loft che era sopra il garage, e dici “questo è come essere a New York”. In quel periodo io ero molto amica di Zoran Ladicorbic. Zoran era un grande stilista. Questa passione per il loft grande di Zoran mi era rimasta nel cuore. Anche i vestiti appesi, che non toccavano terra, gli stand volanti. Zoran aveva un’estetica che per me era stata illuminante in un certo senso. Quindi pensai che quello sarebbe stato il posto ideale per una cosa nuova, perché c’era un’estetica molto chiara, un’immagine molto chiara, con Roversi. Poi per me era fantastico non essere più seduta alla sfilata, prima, seconda, terza fila, questo non conta, ma guardare il lavoro degli altri. Ma per la prima volta poter partecipare a creare un lavoro. Quindi quello fu un periodo fantastico, per me, molto.
PF: Un altro tuo grande amore è quello per la carta.
CS: Sì.
PF: Al punto che nell’88, quindi subito dopo aver iniziato questa nuova avventura imprenditoriale, diciamo, hai fondato una casa editrice, quindi Carla Sozzani Editore. Allora, io ricordo i libri che hai stampato, molti li ho incontrati nei miei anni di frequentazione della libreria di 10 Corso Como, e adesso li vedo anche qua attorno a me proprio perché siamo nella biblioteca. E li ricordo per due motivi fondamentali. Uno è proprio l’esperienza tattile, a volte fin dalla copertina, la qualità della carta, proprio libri da sfiorare, da toccare. E dall’altra i temi, che a volte sembravano ovvi, a volte troppo oscuri, ma subito dopo essere entrati nella logica, dicevi “urca, era la cosa da fare, non poteva non essere fatto un libro su questo, questo, questo altro argomento”. Allora mi chiedo, qual era l’alchimia alla base del progetto Carla Sozzani Editore?
CS: Quando la fondai fu dopo Elle, per cui per me era impensabile non avere più un progetto che si manifestasse con della carta stampata. Mi avevano offerto di tornare alla Condé Nast per la verità, fare Vanity [Fair], però quello non era più il momento, per me era finita. Però i libri sono una passione, impaginare i libri, la ricerca della carta, le immagini. Non coffee [table] books, ma volevo fare dei libri che avessero un significato. Il primo fu il libro di Walter Albini, che era un mio grandissimo amico. Era scomparso, mi sembrava che nessuno si ricordasse più di lui e mi pareva doveroso, giusto, e poi aveva un’estetica a lui incredibile, talmente precisa e quindi fu il mio primo libro e mi ricordo andai da Etro a chiedergli se faceva il tessuto per fare la copertina. Il libro era con un tessuto dietro che Gimmo Etro mi regalò, lo stampò, lo regalò con le murrine di Walter.
PF: Nel ’90 poi apre la Galleria Carla Sozzani, quindi vorrei sottolineare questa rapidità con la quale hai avviato tante cose diversissime nel giro di pochissimi anni. Quindi nel ’90 apre la Galleria Carla Sozzani e nel ’91 arriva il primo nucleo di 10 Corso Como, quindi l’avventura nel retail. Il progetto di unire arte e moda, che sono sempre stati presenti, appunto la galleria e il negozio, poi anche il negozio completamente realizzato in collaborazione con Chris Ruhs, quindi insomma è uno spazio artistico, diciamo pure. Ecco questa idea di avere così vicine arte e moda è stato da subito una parte progettuale?
CS: È stata naturale, è stato naturale perché avevo incontrato Chris, che è stato importantissimo nella mia vita, ma non solo dal punto di vista sentimentale perché in realtà prima mi sono innamorata del suo lavoro, poi di lui. Quindi lì cominciava il progetto, mi sembrava, volevo fare una cosa che fosse mobile, non volevo un negozio come gli altri, con i pavimenti di marmo o i mobili fissi di legno, magari come erano, o di acciaio, non so, volevo qualcosa che fosse vero, materico e Chris mi disse “guarda, io ho tutto quello che vuoi, lo faccio“ e quindi disegnò i mobili, i lampadari, il logo, perché essendo americano mise il 10 davanti a Corso Como, e poi per lui quel segno intorno quando guardi tutti i lavori vecchi di Chris degli anni Ottanta, è sempre stato presente, questo occhio è sempre presente nel suo lavoro, quindi fu una declinazione e poi tutta la grafica e dipinse tutti i muri, quindi quello fu importante. Capellini, fu molto carino, ci aiutò tantissimo, fece tutti i mobili su disegno di Chris, li realizzò. Era stato super bello creare questo nuovo mondo e poi mescolando tutte le cose dentro, perché era la mia esperienza nei giornali, nelle riviste. Volevo [superare] la frustrazione di non essere più in una rivista di moda, senza capire cosa andavo a fare veramente, pensavo invece di sfogliare le pagine, girano un angolo, guardano sul tavolo, invece di avere le pagine ci sono gli stand. Non fu un progetto di marketing.
PF: A proposito di 10 Corso Como, hai detto una frase che anche questa ho trovato illuminante, si trova nel libro: “Senza neanche rendermene conto ho inventato un nuovo linguaggio, Chris ne ha creato l’alfabeto“, una frase stupenda! Aggiungo un’altra cosa, avete anche creato una community (hai detto senza bisogno del marketing), una parola sacra adesso dappertutto, bisogna creare la community, forse in quegli anni si parlava di tribù eventualmente?
CS: Sì, essenzialmente la mia idea – anche di Chris in fondo – era quella di creare un luogo dove la gente venisse e si trovasse bene, stesse bene, perché in quegli anni non c’era internet, non c’era Google, non c’era nulla e quindi non c’era una maniera di comunicare direttamente con le persone e quindi volevamo creare un luogo dove la gente stesse bene. Infatti i più bei complimenti che ho avuto secondo me [erano di] quando uno diceva “Oggi ero un po’ giù, adesso sono qua e guarda, Carla, oggi sto meglio”. E questa era la cosa più bella. Quindi la community è cresciuta logicamente da sola, la gente è sempre venuta, stava magari un giorno intero, quando poi abbiamo aperto il caffè, quello più grande.
PF: E la libreria.
CS: libreria subito, sì, con la galleria, perché la galleria e la libreria sono cominciate prima, poi a piramide è scesa.
PF: Tra l’altro la cosa che trovo molto interessante è che la community è andata ben oltre gli appassionati di moda o gli operatori della moda, perché all’inizio poteva sembrare qualcosa proprio per il circolo ristretto dei modaioli, diciamo, per gli stylist, per i collezionisti, per i fashion victims, invece in realtà c’era tutta Milano alle inaugurazioni.
CS: Sì, sì, sì, era molto, si chiama trasversale, oggi si chiama così. Era un’apertura, era diventata una destinazione, le persone venivano perché stavano bene, perché trovavano cose che non vedevano da altre parti, e la scoperta poi è sempre la cosa che piace a tutti noi. Poi c’era un’apertura: questa è casa nostra, vieni, è aperta. Mi ricordo i bicchieri marocchini che facevamo venire col camion dal Marocco, perché costavano come bicchieri di carta, e poi quanta gente li ha portati a casa, era divertente anche da vedere.
PF: Certo, e diventava una sorta di testimonianza: quante inaugurazioni di Corso Como ho fatto, quanti bicchieri.
CS: Ce ne ho ancora tantissimi!
PF: Un altro capitolo importante della tua carriera, che è sempre stato legato a doppio filo, perlomeno alle origini di 10 Corso Como, è stato NN Studio. Una vera e propria linea di abbigliamento nata nel ’91, pionieristica perché estremamente semplice, diciamo in linea con il lavoro di Helmut Lang, Margiela, ma anche Hermès. Come dicevamo prima, era pensato per essere una sorta di “quiet luxury”, però la cosa che vedo meglio è il “quiet” più che il “luxury” in questo progetto, perché era comunque tutto molto sussurrato, molto essenziale, e tutto pensato per essere duraturo, intramontabile. Era questo il concetto?
CS: Quello che volevo fare era una reazione all’ostentazione dell’inizio degli anni ’90 e creare una specie di uniforme. Come un giardino ben curato, ogni anno aggiungi un pezzo, ma non devi buttare quello dell’anno precedente, quindi la qualità diventava molto importante, e il design. Infatti dicevo, non è moda, è una maniera di porsi, un uniforme del quotidiano. Il guardaroba in fondo, che poi fece anche Margiela più tardi, che lui lo chiamò guardaroba. E beh per dieci anni l’ho fatta, sino a quando sono andata a lavorare con Azzedine Alaïa, quindi era impossibile fare due cose.
PF: Certo, perché poi comunque non disegnavi tu la linea.
CS: No, c’era un giapponese meraviglioso, si chiamava Norio Surikabe. Io la dirigevo.
PF: Parliamo della tua formazione, rapidamente. Hai studiato lingue alla Bocconi, ma avresti voluto fare architettura. Quanto è importante, secondo te, il curriculum di studi nella realizzazione dei propri sogni? Perché ti dico, un dato che emerge molto chiaro da tutte le interviste, tutti i dialoghi che faccio con Parola Progetto, è che moltissime persone che sono diventate eccellenti in un ambito, hanno studiato altrove, hanno studiato qualcosa di diverso. E ti dico da prof, questa cosa mi turba. Dico, “ma come?” Però da un certo punto di vista dici: “ok, l’importante è avere comunque la mente aperta, poi tu quello che impari da una parte, eventualmente lo applichi altrove”.
CS: Sicuramente con gli studi impari la disciplina, che non è poca cosa. E poi ogni studio ti apre le porte a un’altra cosa. Quindi forse pensavi di voler fare il medico, ma facendo il medico ti accorgi che in realtà, no, volevi fare un’altra cosa, ma solo facendola che ti accorgi. Poi tante volte sono i genitori che spingono una scelta di studi che in realtà tu non sai bene cosa vuoi e poi ti trovi, e dopo lo capisci. L’importante è studiare.
PF: Chi invece si avvicina alla fotografia oggi, penso a qualcuno che voglia farne una professione, da fotografo, da editor, da qualsiasi altra cosa nell’ambito fotografico, secondo te da dove dovrebbe partire, da dove si dovrebbe partire per educare l’occhio alla fotografia?
CS: Dalla pittura secondo me. Secondo me prima devi avere una bella cultura artistica, perché in realtà la luce è molto importante nella fotografia e penso che non si possa arrivare immediatamente alla fotografia senza aver studiato da vicino o guardato i libri. Se non hai visto, non puoi andare a vedere di persona a Caravaggio, o non so chi, però secondo me è importantissimo, è fondamentale, anche per avere poi una chiarezza di quello che si vuole fare, perché nella pittura trovi tutto, still life, il nudo, c’è tutto, quindi forse quello ti porta poi a capire in che direzione vuoi andare.
PF: Stessa domanda per la moda: chi vuole adesso iniziare una carriera nella moda? Dove dovrebbe fare ricerca? Dove dovrebbe educarsi?
CS: Prima dovrebbe, secondo me, sapere la storia della moda. Io mi ricordo Azzedine Alaïa che mi diceva sempre “ricordati che dobbiamo fare una mostra di Poiret e Margiela” e io gli dicevo “ma cosa vuol dire Poiret e Margiela?” “Ma come? Il recycle!” Poiret fu il primo a fare il recycle, un parallelo tra i due sarebbe meraviglioso. Aveva ragione, ma subito non ci pensi. Quindi conoscere la storia della moda è molto importante anche per poter capire meglio o vedere dei nuovi talenti o avere la sensazione di essere davanti a qualcosa di nuovo:se non conosci la storia è un po’ difficile.
PF: Hai citato Alaïa. Non ti occupi solo della fondazione Sozzani ma ti occupi anche della fondazione Azzedine Alaïa che ha sede a Parigi ed è una fondazione che è nata per conservare non solo la memoria di un grandissimo maestro e per te di un amico fraterno, ma anche una collezione unica al mondo. Io non sapevo di questa cosa. Raccontaci questa collezione.
CS: Sempre avevo saputo [di questa collezione] perché nel 2007 con Azzedine avevamo cominciato a fondare un’associazione per preservare il suo patrimonio di vestiti. Ma non avevo, nemmeno io sapevo in che misura fosse questa collezione. Mi chiedo se neanche lui lo sapesse in che misura perché [ci sono ] piani, cinque piani pieni pieni pieni ovunque, un basement pieno di vestiti. Ci sono 600, quasi 700 Christian Dior, 700 Madame Gres, 500 Cristobal Balenciaga, 300 Adrian. La collezione è immensa, pari a quella di un museo in realtà. Quindi sono abbastanza orgogliosa di essere riuscita a fare quello che lui voleva, che era una fondazione di dignità pubblica perché così tutto questo è sicuramente preservato, è un patrimonio di Francia.
PF: Certo, c’è da farci un museo della moda incredibile. Lui le comprava in aste, svendite?
CS: Aste, molte aste. Azzedine non aveva alcun senso del denaro per cui, povero o meno o ricco, lui comprava. Poi qualcosa sarebbe successo. Spesso si batteva anche con i musei, tante volte i musei. Non so quante volte, parlando con Andrew Bolton del Metropolitan, diceva: “quando perdevamo dicevamo: l’avrà comprato Alaïa”.
PF: Avete in programma di fare delle mostre? Ad esempio ricordo [che] sono andato a vedere forse la prima mostra che è stata fatta dopo la morte di Alaïa.
CS: “Je Suis Couturier”
PF: Era una roba da brividi.
C: Il suo lavoro è una cosa!
PF: Ricordo la gente che stava lì a guardare (erano quasi tutti ragazzi e ragazze giovanissimi per cui secondo me studenti di moda) stavano davanti a questi abiti incantati, come se volessero ricordare ogni punto, ogni passaggio e stavano lì come se fossero in adorazione. Io non ho mai visto così tanta gente ipnotizzata in una mostra di moda e io stesso ero abbacinato.
CS: È incredibile. Guarda che io che l’ho conosciuto bene, sono stata vicino a lui, l’ho visto lavorare. Pensa che lui diceva sempre: “devo migliorare, posso fare meglio, posso fare meglio“. Questa sarebbe una lezione per tanti giovani stilisti.
PF: Ci sono leggende, poi tu mi confermerai se è verità oppure no, di una giacca che lui ha fatto rifatto per 7-8 anni perché non veniva come voleva.
CS: Quella era la sua tela di Penelope, sì, era la sua maniera di estraniarsi da tutto, andava come in trance. Quella giacca l’ho vissuta vicino a lui, ore e ore. La faceva e poi la disfaceva perché non era abbastanza perfetta.
PF: Ma poi è arrivato a una conclusione?
CS: Sì è arrivato alla conclusione ma per forza, perché era necessario a un certo punto. Però sono stati gli anni, quelli in cui lui lavorava poco, meno, tutto il periodo degli anni 90 in realtà. Dal ’93 al 2000 si era come ritirato, alla ricerca di una perfezione che – come diceva lui – non raggiungerò mai. Invece la raggiunta eccome. Era una persona straordinaria anche da un punto di vista culturale; non aveva fatto grandi scuole ma capiva tutto, sentiva tutto, dava dei giudizi incredibili proprio perché era tutto dentro, antico.
PF: E cucinava bene anche.
CS: Cucinava divinamente.
PF: C’è un grande nome della moda che magari hai visto arrivare ma di cui non hai saputo anticipare la grandezza e ti ha sorpresoì?
CS: Christian Lacroix. Christian Lacroix, sì, mi ricordo una conversazione con la Suzy Menkes a Roma, a casa di Valentino. Lei diceva “sarà un grandissimo” e io dicevo no. Invece aveva ragione lei.
PF: Parlando dei tuoi collaboratori, collaboratrici. Hai sempre lavorato con grandissimi gruppi di persone perché tutto quello che hai fatto è sempre stato comunque un lavoro di grandi collaborazioni a partire dai giornali, eccetera. Qual è la qualità che apprezzi di più in chi collabora con te?
CS: Tante. Sicuramente l’organizzazione, sennò divento pazza. L’ordine. E poi invece la fantasia e la capacità di condividere le cose. Questa è la cosa più bella.
PF: Ancora oggi crei con carta, forbici, colla o sei passata al digitale?
CS: No, no, no, non sono capace. Ma non solo perché non sono capace senza colla, scotch. Anche perché ogni volta che faccio un libro (perché faccio anche tutti i cataloghi di Alaïa per esempio oppure ho fatto il catalogo della mia mostra di fotografia, della mia collezione) sul digitale non capisci bene le proporzioni e poi c’è anche un problema con i testi. Tante volte sembra che si veda bene, poi quando lo vedi stampato il testo è troppo chiaro oppure il corpo non è abbastanza leggibile. Io ogni volta che lavoro (non io, ma il grafico) sul digitale, poi voglio sempre una coppia digitale stampata prima di mandarlo a stampare.
PF: Hai un talismano, un oggetto fortunato?
CS: Il mio nastro.
PF: Il nastro per i capelli?
CS: Il nastro, sì. Questo ci vuole tutti i giorni.
PF: C’è uno stilista o una stilista che dovremmo riscoprire? Non abbastanza considerato per quello che vale?
CS: Sicuramente Adeline André. Adeline André è una couturière francese molto molto brava, veramente. Dovresti guardare il suo lavoro. Sono le forme, i tessuti, i colori, la delicatezza, l’eleganza. Direi lei dovrebbe essere molto più riconosciuta di quanto non sia.
PF: Hai un motto? Una frase guida?
CS; No, però… I motti me li aveva fatti mio padre. “Non dire mai non ho tempo, non dire mai sono stanco“. Quindi quelli sono rimasti. Sennò direi che bisogna cercare: la curiosità è la cosa che mi interessa di più.
PF: Per cosa vorresti essere ricordata di tutte le cose che hai fatto?
CS: Difficile, ma probabilmente, forse sicuramente anzi, di aver dato un po’ alla città di Milano, che è la mia città e che anche se non sono andata qui, in fondo è uguale. Con tutte le mostre, le cose che ho fatto. Forse sì.
PF: Carla è arrivato il momento della raffica!
CS: Oia!
PF: La raffica è la cosa che tutti temono. Ti ricordo le regole: sono dieci domande, solo risposte secche, però hai due bonus, una possibilità di passare e una possibilità di argomentare.
CS: Ok.
PF: Partiamo. Tortelli di zucca o risotto alla milanese?
CS: Tortelli di zucca.
PF: Il museo perfetto: in un vecchio edificio riadattato o in una nuova costruzione avveniristica?
CS: Sono appassionata del Louisiana, quindi…
PF: Il regalo da fare: un oggetto o un libro?
CS: Un libro.
PF: Il regalo da ricevere: un oggetto o un libro?
CS: Un libro.
PF: Per raccontare la moda emergente: fotografia o grafica?
CS: Io direi illustrazione, però fotografia in caso.
PF: Per isolarsi e pensare: un oasi nel deserto o un’isola in mezzo al mare?
CS: No, la città.
PF: Davvero? Ti regalo un’argomentazione, questa mi interessa.
CS: Sì, perché io non riesco a isolarmi in un’isola, non c’è neanche da pensare. L’altro cos’era?
PF: Il deserto, un’oasi nel deserto.
CS: No, no, no, a me piacciono le città, mi sento sola anche nelle città, mi trovo benissimo.
PF: Una serata romantica: cinema o teatro?
CS: Teatro, non mi piace il cinema.
PF: Per fare ricerca, meglio andare a Londra o a Parigi?
CS: Londra.
PF: Moda italiana o moda francese? Hai ancora un passo…
CS: Giapponese!
PF: Ok. La domanda finale della raffica, moda o arte?
CS: Ma la moda è anche una forma d’arte, quindi arte.
PF: Ok, quindi l’arte include anche la moda.
CS: Tutto, è anche quello che sai fare.
PF: È vero, è vero. Bene, finita la raffica, perfetto, perfetto. Allora Carla, la domanda finale del podcast. Consigliaci un libro, uno solo, per te importante, che dovremmo leggere anche noi?
CS: Che è stato importante [per me]: “Il Giovane Holden”. E ora che sono molto a contatto con i giovani e la trasmissione, mi sembra un libro abbastanza importante per la crescita generazionale.
PF: Grazie Carla.
CS: A te.
Puntata registrata a Milano il 14 gennaio 2025 e pubblicata il 15 gennaio 2024.
La trascrizione è stata effettuata utilizzando strumenti di intelligenza artificiale e successivamente editata dall’autore.
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