In questo episodio parliamo di design e ricerca con Andrea Trimarchi e Simone Farresin, ovvero Formafantasma.
Dopo la formazione all’ISIA di Firenze e alla Design Academy di Eindhoven, Andrea e Simone fondano il loro studio nel 2009 in Olanda. In breve tempo Formafantasma diventa un punto di riferimento internazionale, come dimostra la loro presenza nelle collezioni permanenti del MoMA, del Victoria & Albert, del Centre Pompidou e molti altri ancora.
Oggi vivono e lavorano a Milano, da dove portano avanti progetti di ricerca, curano mostre e collaborano con aziende quali Bulgari, Flos, Prada, Samsung, Tacchini, Bitossi, Giustini/Stagetti e molte altre, conservando sempre un approccio critico verso il design tradizionale.
Un ringraziamento speciale a Giustini/Stagetti per la fattiva collaborazione.
I link della puntata:
– Il sito di Formafantasma https://formafantasma.com
– La Design Academy di Eindhoven https://www.designacademy.nl
– ISIA di Firenze https://www.isiadesign.fi.it
– La Galleria Giustini/Stegetti di Roma https://giustinistagetti.com
– Il libro di Tommaso Bovo “Design Liquido” https://formaedizioni.it/prodotto/design-liquido/
– La Biennale Arte di Venezia del 2022 https://www.labiennale.org/it/arte/2022
– Il progetto Prada Frames https://www.prada.com/ch/en/pradasphere/events/2022/prada-frames.html
– Il profilo di Donna Haraway https://it.wikipedia.org/wiki/Donna_Haraway
– Il libro di “La vita delle piante. Metafisica della mescolanza” di Emanuele Coccia https://www.mulino.it/isbn/9788815278210
Sono Paolo Ferrarini e questo è Parola Progetto.
Parola Progetto è un podcast di dialoghi con persone che vivono di progetti, dove si racconta il design in tutte le sue forme, senza oggetti e immagini, solo attraverso la parola.
Ed eccoci qua.
Oggi siamo a Roma e parliamo di design e ricerca con Andrea Trimarchi e Simone Farresin, ovvero Formafantasma.
Dopo aver studiato all’ISIA di Firenze, Andrea e Simone proseguono la loro formazione alla Design Academy di Eindhoven, dove si stabiliscono e nel 2009 fondano il loro studio. Formafantasma diventa rapidamente un punto di riferimento internazionale nel design, come testimonia alla loro presenza nelle collezioni permanenti del MoMA di New York, del Victoria & Albert di Londra, del Centre Georges Pompidou di Parigi, solo per citarne alcuni. Oggi vivono e lavorano a Milano, da dove portano avanti i progetti di ricerca, curano mostre e convegni, disegnano spazi espositivi di retail, realizzano oggetti di arredo e illuminazione, lavorano con gallerie e aziende di ogni dimensione, sempre mantenendo con coerenza un atteggiamento critico nei confronti del design più tradizionale.
Tra domande progettuali e risposte concrete, in oltre 10 anni di attività hanno collaborato con Bulgari, Flos, Bitossi, Samsung, Lexus, Cedit, Tacchini, Giustini/Stagetti e molti altri ancora.
Ciao Andrea, ciao Simone, benvenuti a Parola Progetto.
AT, SF: Ciao, grazie dell’invito.
PF: Il vostro approccio al design è particolare e insolito, non solo in Italia, ma a livello internazionale. Voi fate molta ricerca e il prodotto è soltanto una delle opzioni possibili. Riuscite a darmi la vostra personale definizione di design?
SF: Dare una definizione di design univoca è sicuramente molto complesso. Quello che a noi interessa del design è che è una disciplina che vediamo come a servizio di un miglioramento estetico, politico, sociale, ecologico, quindi in qualche modo a servizio della società. Però allo stesso tempo bisogna riconoscere che il design è anche uno strumento nelle mani del marketing, nelle mani di chi dirige le aziende per aumentare il fatturato, quindi uno strumento per l’accumulo di capitale, per rendere i prodotti desiderabili. E c’è una profonda dicotomia, una profonda tensione tra queste due anime del design. Noi siamo interessati in qualche modo a navigare a questa complessità che troviamo interessante proprio perché ci permette di osservare dinamiche complesse estremamente legate alla contemporaneità, in tutte le loro possibilità e problematiche.
AT: Sicuramente una delle caratteristiche dello studio o della nostra pratica è il fatto che è una pratica ambigua e ci piace definirla tale. Da una parte siamo a servizio di aziende con cui collaboriamo e dall’altra parte invece siamo all’interno dello studio e facciamo progetti da topi da biblioteca. E per noi questa dicotomia e questo modo di lavorare secondo me è importantissimo e serve in qualche modo a snocciolare e a, come si dice un po’ in inglese, a unraveling la complessità del mondo in cui viviamo.
PF: Come avete appena detto, lavorate molto in simbiosi. A me ha colpito particolarmente un episodio che raccontate in “Design liquido” di Tommaso Bovo, un libro che consiglio a chi ci sta ascoltando. La vostra candidatura alla Design Academy di Eindhoven era unica e vi siete proposti come una cosa sola, come singola entità fin da allora, prima paradossalmente di iniziare la vostra pratica. Anche oggi funziona ancora questa cosa o magari dopo tanti anni di lavoro insieme avete trovato un equilibrio di forma diversa?
AT: Come vedi noi continuiamo a completare le domande e le risposte dell’altro; quindi, diciamo che siamo ancora molto complementari. Poi insomma è anche bello che nomini Tommaso che è stato in realtà un collega di Simone all’università; quindi, comunque è anche molto bello perché quell’intervista va anche a raccontare degli aspetti molto intimi della nostra relazione, prima come compagni di vita e poi come compagni di lavoro. Beh, quell’aneddoto è molto interessante perché in realtà Formafantasma nasce già a Firenze quando studiavamo entrambi. Eravamo entrambi in anni diversi, io sono più piccolo di Simone, però già lì collaboravamo in progetti secondari o nel dopo scuola diciamo, e Simone mi aiutava nel compilare i miei progetti scolastici. Però già in quel momento avevamo cominciato un po’ a domandarci il nostro ruolo in questo mondo, che è anche molto molto complesso, però sicuramente la Design Academy è dove abbiamo imparato, abbiamo avuto gli strumenti adatti per capire il nostro ruolo poi in questa disciplina.
SF: Sai, noi siamo in due e questo comporta che il modo di lavorare è completamente diverso. Noi diciamo sempre che non disegniamo ma parliamo. Il nostro lavoro è un frutto di dialogo. Questa cosa comporta una posizione verso il progetto che è molto diversa, perché vuol dire non tanto mediare ma discutere e vedere il progetto come una cosa che non è una forma di auto-espressione perché si è in due. E non è nemmeno una forma di mediazione ma una forma, appunto, di co-progettazione e di analisi della realtà di cui ci occupiamo in un dato momento. È come se il progetto si posizionasse in un luogo intermedio immaginario che sta tra me e Andrea. Ovviamente poi nel tempo questa dimensione doppia della nostra natura, della nostra pratica, ci ha aiutato molto anche ad allargare questa conversazione con altre persone al nostro ufficio.
Devo dire un’altra cosa a questo proposito visto che hai menzionato l’ISIA Firenze. Tu devi pensare che noi avevamo studiato con Paolo Deganello e con [Gilberto] Corretti, due dei fondatori degli Archizoom, che venivano da una pratica collettiva comunque di gruppo. Quindi per noi, quando ci siamo iscritti alla Design Academy di Eindhoven con un portfolio congiunto, non la trovavamo una cosa particolarmente straordinaria. Invece abbiamo capito nel tempo che era stata del tutto anomala e credo che noi siamo stati accolti come duo perché il direttore del corso era Gijs Bakker che insieme alla moglie [Renny Ramakers] è fondatore di Droog Design per intenderci, chi conosce il design sa di cosa sto parlando. Aveva lavorato più lungo tempo con la moglie.
AT: E lui aveva fondato un collettivo che era Droog Design.
SF: Era un collettivo e veniva da quella cultura forse un po’ più degli anni ’70 che della contemporaneità, dove il lavoro collettivo era un po’ più comune.
AT: Poi diciamo che chiaramente adesso siamo in un momento completamente diverso rispetto a quando ci siamo iscritti alla Design Academy. Adesso l’idea di team work o di collettivi è molto comune. Se penso in Italia, Fosbury [Architecture], li conosciamo molto bene, o tante altre pratiche più british dove l’idea del team work o del collettivo è molto comune. Quando abbiamo cominciato erano gli anni dei designer star dove erano molto più sul nome. Li conosciamo tutti insomma. Erano momenti diversi rispetto a quelli attuali.
PF: E devo dire anche che – dato mio personale – nelle ultime puntate di Parola Progetto ci sono un sacco di coppie. Mi sta capitando sempre più spesso. Nelle prime stagioni non era così frequente, ma ultimamente sempre più spesso mi sta capitando di incontrare coppie e addirittura potrebbero arrivare dei terzetti. Quindi insomma parliamo di gruppi sempre più nutriti. Quindi voi confermate un po’ questo fenomeno.
AT: Assolutamente.
PF: Sempre citando Tommaso Bovo, nel libro dite che spesso riscrivete il brief dei clienti. Questa io la trovo una cosa meravigliosa. Allora vuol dire che le aziende non hanno le idee chiare?
SF: Beh, molto spesso decisamente non hanno le idee chiare. Allora quella cosa di riscrivere il brief non è poi un esercizio…
AT: Per essere contro diciamo.
SF: Esatto.
AT: A volte sì però.
SF: Un po’ in positivo. Però è naturale che si debba instaurare un dialogo. Quindi prima di tutto noi abbiamo notato un cambiamento in questi quasi forse 15 anni di carriera. All’inizio alcune aziende venivano, o dei clienti venivano perché in qualche modo c’era un po’ un hype, come si dice, un po’ un interesse attorno alla nostra pratica perché eravamo giovani, carini, italiani e via dicendo. E un po’ internazionali. Però magari non avevano capito niente di quello che facevamo. Più abbiamo nel tempo chiarito qual è la nostra posizione, più i clienti che arrivano hanno una maggior consapevolezza del nostro modo di lavorare e quindi ci incontrano con un brief più preciso oppure con la consapevolezza che con noi si può instaurare un dialogo. Quando si instaura un dialogo non si può lasciare il brief con me, va appunto riscritto. Ed è un modo anche credo molto onesto per dire anche forse questo io so fare e quello no. Quindi non è una questione solo di insegnare agli altri cosa bisogna fare ma anche di onestà intellettuale.
PF: Vi è mai capitato, dopo questo esercizio di riscrittura, magari di trovarvi il cliente che dice “no, grazie” o voi magari che dite “no, grazie”?
AT: Sì, però devo dire che è molto raro. No dai, è abbastanza raro.
SF: Secondo me Andrea si dimentica che magari ci sono scambi di mail che succedono con tanti clienti e poi non sono mai successi i progetti. Possiamo fare anche la lista di aziende con cui questa cosa è successa.
AT: Sì, però spesso quando poi entriamo in un rapporto reale con un’azienda, dove andiamo a riscrivere oppure visitiamo e ci aprono le porte, spesso magari cosa loro hanno immaginato all’inizio non è quello che andiamo a fare alla fine. Quindi da una parte, soprattutto in questi ultimi quattro anni direi, il rate di persone che scappano o di che noi scappiamo è sempre è diminuito. Perché comunque le persone che arrivano hanno abbastanza la consapevolezza di cosa possiamo offrire, o di [dover] essere molto aperti a capire cosa noi possiamo fare all’interno delle aziende.
PF: Devo anche dire una cosa: all’inizio della vostra carriera non era così facile capire qual era il contributo reale che potevate dare. Soprattutto penso alle aziende italiane che pensano al prodotto, all’oggetto. Il vostro è un lavoro molto più complesso, che prevede anche un contributo intellettuale molto alto quindi magari all’inizio ci poteva essere anche questo.
SF: Ma assolutamente sì. Ma devo dire: non solo le aziende, anche noi dovevamo trovare il nostro posto. Quindi noi crediamo che per esempio probabilmente i primi cinque sei anni del nostro lavoro, dove abbiamo prodotto anche lavori più indipendenti o supportati da musei e istituzioni, sono stati dei lavori molto formativi che ci hanno aiutato a trovare la nostra voce come se noi avessimo fatto sei anni di PhD per capirci. Poi a un certo punto, nel tempo, uno trova la propria posizione. Ma è molto complicato specialmente perché viviamo in un momento complicato, dove anche la realtà delle aziende è completamente diversa. L’industria del mobile è interessante fino ad un certo punto e non è data solo dalle aziende, ma è data anche da motivi proprio pratici. Se si pensa all’innovazione tecnologica e materiale degli anni 60 è ovvio che non è quella che è successa negli imbottiti degli ultimi anni.
La luce già con l’introduzione dei led ha reso il contesto più interessante perché tecnologicamente più nuovo e investigabile. Ci sono vari motivi per cui è stato complicato anche trovare il nostro ruolo nel mondo.
AT: Poi diciamo anche che ce lo siamo un po’ scelti. I primi anni noi eravamo anche in Olanda. Non che fosse più semplice, però diciamo che eravamo leggermente fuori da certe dinamiche che poi sono quelle del design più tradizionale che può succedere a Milano, a Londra o nelle città più grandi. Comunque, il design in Olanda sta sotto il Ministero della Cultura non quello dell’Economia. Quello cambia anche il modo in cui viene approcciato la disciplina del design e quindi, essendo lì, noi riuscivamo anche ad avere un approccio che era molto più critico, concettuale, chiamalo come vuoi, più sperimentale. Però per noi sin dall’inizio era chiaro che il passo successivo sarebbe stato l’incontro con le aziende, ma non solo del design, della moda, di qualunque cosa, le aziende at large. Però quella posizione esterna un pochino periferica ci ha aiutato molto a chiarire chi eravamo e cosa potevamo offrire.
PF: Voi realizzate molti spazi, cosa che io all’inizio, quando ho visto le prime cose che facevate, non avrei mai pensato che sareste arrivati a realizzare. E vi devo dire una cosa: io in tutti gli spazi vostri che ho sperimentato mi sento bene. C’è questa dimensione proprio che mi piace, mi fa stare bene, perché mi fa pensare ma mi fa anche proprio godere sensorialmente. In particolare, penso alla Biennale di Venezia. Era la Biennale d’Arte, quella di Cecilia Alemani del 2022, dove avete progettato il layout dell’esposizione centrale oltre alle cinque sezioni storiche. Mi ha fatto molto piacere vedere che anche nelle biennali successive il vostro lavoro è stato conservato. Di solito non accade, di solito viene smantellato. Due domande in una. Come è nato il progetto della Biennale 2022 e se sapevate già che sarebbe stato più duraturo di una sola edizione?
SF: Domande bellissime! Avremmo da raccontare per un intero podcast su questo.
PF: Possiamo fare anche due o tre puntate se volete.
SF: Da dove cominciamo? Devo dire parecchie cose. Prima di tutto Cecilia è stata una dei curatori con cui abbiamo lavorato che ha una comprensione spaziale ottima e che aiuta il dialogo con noi progettisti. Ci sono invece curatori che non comprendono a fondo lo spazio e lì è un problema. Quindi credo che il lavoro fatto sul layout, non l’allestimento ma il layout, la distribuzione spaziale, sia un lavoro che va riconosciuto a noi ma anche a Cecilia, che è una grandissima professionista in questo senso.
Poi per fortuna abbiamo avuto l’opportunità di lavorare con lei anche in un intervento nell’anno precedente all’apertura della Biennale. Nell’anno del Covid abbiamo fatto un allestimento insieme a Cecilia, si chiamava “Le muse inquiete”, che era una mostra retrospettiva sulla storia della Biennale proprio perché la Biennale d’arte era saltata per via della pandemia. Quindi diciamo che il team era rodato.
Detto questo, noi quando facciamo allestimento siamo totalmente consapevoli che essendo interessati a costruire un lavoro critico anche sulla questione dell’ecologia, gli allestimenti essendo temporanei hanno tantissime problematiche in questo senso. Noi eravamo profondamente preoccupati in tal senso quando abbiamo cominciato il progetto della Biennale. Siamo stati fortunati perché ci sono delle persone interne al team progettuale della Biennale che sono molto interessate a questo tema. In più il direttore era molto interessato a questi temi e quindi ha lavorato molto bene in questa direzione, nonostante l’allestimento che ha delle sue problematiche.
Abbiamo utilizzato muri in cartongesso fatti con materiale completamente riciclabile. Però con Cecilia, con il team della Biennale, quell’anno abbiamo portato un cambiamento che mi auguro (ma non sono sicuro che sia rimasto) permanente. Abbiamo introdotto una nuova clausola nella valutazione di chi esegue l’allestimento: che non sia più scelto solo per il prezzo minore, ma anche per la possibilità di avere una maggior riciclabilità dei materiali e riutilizzo. Quindi anche in quell’anno abbiamo utilizzato molti materiali, tessuti che poi sono stati riutilizzati e via dicendo.
Però detto questo, con Cecilia abbiamo lavorato molto anche a studiare le Biennali precedenti e abbiamo cercato di non ripetere degli errori. Quindi una pratica che sembra ovvia, ma che abbiamo fatto sia noi che Cecilia, è di studiarci come quello spazio è stato usato in tutta la storia della Biennale e capire cosa avremmo potuto fare per migliorarlo.
AT: Sulla seconda parte della domanda, diciamo che noi volevamo e avevamo anche chiesto a Cecilia di metterci in contatto col curatore successivo. Chiaramente in quel momento, in qualche modo, non volevamo imporre un layout a un direttore di cui ancora non sapevamo l’idea progettuale della mostra. Quindi la mostra è aperta e poi, come ben sai, alla fine parte di quella scenografia è rimasta.
SF: Per spiegare la nostra posizione, noi troviamo molto problematico che le Biennali di Architettura e di Arte si alternino, ma non ci sia un dialogo tra i curatori. Ci sono vari problemi: lo spazio è protetto, l’Arsenale è protetto, e chi si occupa di proteggere questo bene culturale non vuole che l’allestimento rimanga. La tendenza è che i curatori di architettura vogliono togliere i muri perché amano l’architettura dell’Arsenale, i curatori d’arte hanno bisogno di muri per i quadri, poi succede questa cosa assurda di togliere e rimettere l’allestimento. La nostra idea principale sarebbe stata quella di convincere più curatori possibile a creare una catena per tenere il più a lungo possibile l’allestimento. È successo, ma oltre la nostra volontà. Probabilmente l’allestimento era disegnato bene e si è deciso di mantenerlo.
PF: Avete già iniziato a parlare di sostenibilità. Alcune riflessioni sulla sostenibilità rischiano di portarci indietro più che portarci avanti. Parlo di ogni tipo di sostenibilità, sia quella ambientale, sia quella sociale, sia quella economica. Faccio riferimento a certe proposte in cui sembra che l’unico modo per andare avanti sia tornare alle origini, ridurre, scalare, rallentare, recuperare, tornare a qualche forma di tradizione preindustriale, insomma, la decrescita. Dall’altra parte c’è chi parla invece di nuovi materiali che magari crescono, si riparano, si rigenerano, si creano il nuovo, quindi forme di produzione a impatto addirittura positivo e così via. Qual è la vostra visione della strada che ci porterà a una sostenibilità matura?
SF: Noi abbiamo una visione che definiamo patchy, non so come dirla in italiano questa parola che è “a macchie” forse. Nel senso che uno dei grandi problemi quasi concettuali o filosofici nell’affrontare la sostenibilità è che lo si fa ancora da una prospettiva modernista. E c’è quest’idea di trovare una soluzione unica che possa essere applicata come una griglia in tutto il pianeta. E quindi si dice per esempio c’è troppa CO2 nell’atmosfera, dobbiamo piantare alberi ovunque. Oppure la plastica è insostenibile, abbiamo bisogno del legno. Ecco, queste idee, cioè di una soluzione univoca, funzionano benissimo per il marketing e per gli interessi economici, perché si può fare un’operazione di marketing. In realtà la sostenibilità necessita di reagire al qui ed ora, e qui ed ora vuol dire reagire al contesto. Quindi non ci sono soluzioni univoche. E questo è il grande problema, perché richiede una valutazione di cosa è sostenibile e non sostenibile che non è esclusivamente numerica. E lo intendo proprio anche a livello politico.
Uno degli strumenti più comuni, per esempio, per quanto riguarda i materiali è la creazione di certificazioni. Questo legno è più sostenibile di un altro, questo materiale è più sostenibile di un altro. Queste sono delle operazioni molto importanti ma che in ogni caso lavorano all’interno dell’economia di mercato. Questa cosa appiattisce profondamente e svilisce un sacco di lavoro, per esempio in realtà molto più piccole. Penso a produttori di lana, di pastori che non riescono a vendere il loro prodotto, penso a proprietari terrieri che devono pagare per avere certificazioni che non si possono permettere. C’è un problema profondo dove la sostenibilità viene trattata come un altro elemento dell’economia di mercato.
Un altro esempio eclatante è l’idea che si possano fare carbon offsetting, un tecnicismo che vuol dire che se io emetto CO2 in Italia perché ho una fabbrica qui, invece di cercare di diminuirla posso in qualche modo bilanciare questo perché pianto degli alberi in Kenya, senza sapere poi cosa succederà a questi alberi, chi controllerà questa realtà e via dicendo. Questo per dire che la sostenibilità è un tema molto complesso e che richiede un ripensamento filosofico del modo in cui dobbiamo vivere. Però noi siamo interessati alla sostenibilità e all’ecologia (noi preferiamo parlare di ecologia) proprio per questo.
PF: La soluzione sarà secondo voi più naturale o più tecnologica?
AT: Non siamo molto sull’idea della tecnologia che salverà il mondo, non credo che sia quello. Anche quando parlavi prima di materiali che crescono, certamente sì, cresceremo i materiali al posto di estrarli. Però se il gesto di buttare rimane lo stesso, l’attitudine è quella, quindi è un’attitudine usa e getta. Quindi sicuramente la tecnologia può aiutare a ottimizzare dei processi. Penso per esempio alla visual recognition, anche nella suddivisione dei materiali di scarto. È incredibile adesso, in certe nazioni non si fa nemmeno più la differenziata perché hai questi centri dove tutto viene fatto in maniera elettronica e digitale. Quindi di sicuro la tecnologia aiuta, però probabilmente quello che bisogna fare è cambiare il comportamento e probabilmente il sistema economico in cui viviamo, che è quello per la base che è sbagliato.
SF: Sulla tecnologia ci sarebbe tanto di cui parlare. Il problema in questo momento è sempre lo stesso: qualsiasi tecnologia è super interessante. Per esempio, l’intelligenza artificiale offre delle opportunità infinite, per esempio con la ricerca scientifica. Il problema è che se questi strumenti – che definire strumenti è anche troppo poco – vengono utilizzati per interessi di tipo economico e l’interesse di tipo economico è l’unico elemento che ne definisce l’etica. È ovvio che questi strumenti diventano totalmente deleteri.
Poi per quanto riguarda l’intelligenza artificiale ricordiamoci che, come tutte le tecnologie molto disruptive, hanno bisogno di essere regolamentate a livello politico. E c’è un problema molto chiaro dei grandi proprietari di queste tecnologie che è quello di confondere l’opinione pubblica in modo tale che le tecnologie vengano a far parte della vita comune delle persone prima che gli organi di regolamentazione possano regolamentare il loro utilizzo.
PF: Parlando di produzione classica, di design classico, di sistemi che diamo in un certo qual modo per scontati e che – come ci stiamo raccontando – voi mettete in questione. Parliamo della tradizione italiana. Nel design italiano, concetti come produzione in serie, design per tutti, design democratico, sono comunque temi che vengono ancora cavalcati, sono delle parole chiave. Secondo voi ha ancora senso parlare di produzione in serie e di design per tutti?
SF: Altra domanda complicatissima. [La risposta è] sì, però bisogna definire chi sono questi “tutti”. Se penso ai designer, ma anche allo stesso Enzo Mari, stiamo parlando di persone che hanno lavorato in modo attivo e soprattutto consistente dagli anni ’70 e gli anni ’80. “Tutti” eravamo noi nel nostro piccolo mondo, in Italia, e pochi altri.
In questo momento se pensiamo a un oggetto come un iPhone o a qualsiasi strumento di tipo digitale, il “tutti” comprende la popolazione globale. Questo significa che l’idea di design democratico è raggiungibile, ma bisogna capire cosa comporta e lo sappiamo. Abbiamo visto tutti negli anni [che] comporta magari profondi problemi dal punto di vista dei diritti per i lavoratori o del child labor; quindi, ci sono grandissimi problemi che vanno affrontati in tal senso.
Credo che in questo momento per le aziende del design (quelle che tutti conosciamo, anche europee, potete nominarle tutte), io credo che rendere il prodotto acquistabile sia importante, ma non può essere quello che guida il progetto, perché l’Ikea esiste già. Gli oggetti esteticamente piacevoli, li possiamo comprare online relativamente ad un prezzo molto basso.
Noi non possediamo tutti gli oggetti che abbiamo disegnato e io vivo bene comunque. Quando noi abbiamo incontrato dei lavori di Sottsass o degli autori che ci hanno formato, noi non li avevamo mai posseduti. Adesso abbiamo un po’ di oggetti in casa, non li abbiamo mai posseduti: però quegli oggetti ci hanno cambiato la vita.
Quindi bisogna ricordarci che possedere le cose non è l’unico modo di avere un engagement, un incontro con queste cose.
PF: Avete lavorato con diverse aziende di moda, cito Fendi, Krizia, Max Mara, Hermès. Consulenze, concept per sfilate, allestimenti, ma anche oggetti in alcuni casi. Non avete mai realizzato abbigliamento. Domanda numero uno, lo fareste? Domanda numero due, se sì, quali sono le condizioni di base che vorreste per lo sviluppo di questo progetto?
AT: Come sai cerchiamo di spaziare il più possibile, ci inventiamo anche dei ruoli che a volte proprio non è che sono i nostri, però crediamo che ci sono comunque dei, come si dice, boundaries, ci sono dei confini nella nostra disciplina. Se avessimo cominciato come fashion designer all’inizio, probabilmente adesso saremmo dei fashion designer, non so se importanti o meno, ma insomma forse lo saremmo. Stessa cosa se penso di approcciare il gioiello o altre discipline del design o graphic design. Noi potremmo fare tutto, però probabilmente dovremmo studiare tantissimo. Non lo farei una tantum, sarebbe un cambiamento di vita. Un po’ come a volte diciamo ci piacerebbe a fare un film, però forse dovremmo proprio diventare dei registi.
Non lo so, le condizioni sono libertà, tempo e studio e ricerca. Per me è ricominciare. Non vorrei fare una capsule collection, quello non lo farei mai.
PF: Chiarissimo.
SF: La moda però ci affascina molto e ci affascina perché ci sono degli aspetti della moda che amiamo molto e cose che odiamo totalmente. La cosa che odiamo è che è così veloce e quindi in qualche modo è obsoleta immediatamente, e la cosa che amiamo di più è che è così veloce e che è un esercizio continuo all’immediatezza, alla reazione. E quella cosa è totalmente affascinante.
Come vedi noi siamo sempre così, i motivi per cui amiamo il design sono gli stessi motivi per cui lo odiamo, le cose che ci affascinano della moda sono le stesse per cui la odiamo. Questa è una dimensione che ci appartiene profondamente.
PF: Ragazzi, io vi conosco da tanti anni ma non so perché vi chiamate Formafantasma.
AT: Vai Simone, questa è tua!
SF: Potremmo raccontare tanti motivi, però quello reale di base è che quando noi abbiamo deciso di lavorare insieme abbiamo avuto questa intuizione che il nostro lavoro sarebbe corrisposto ad un pensiero, a seconda del quale la forma sarebbe stata in qualche modo secondaria. Volendo, in qualche modo il nome ritorna alla cosa che abbiamo detto prima, cioè che il nostro modo di lavorare parte da un dialogo e non dal disegno e che il disegno in qualche modo è secondario. Non vuol dire che non dobbiamo disegnare gli oggetti, non vuol dire che non abbiamo abilità nell’utilizzare l’estetica come una forma di linguaggio, quella cosa che ci appartiene, ma ci fa orrore l’idea che noi utilizziamo uno stile da appiattire sopra ogni lavoro che facciamo. Non è così che lavoriamo. E quindi in qualche modo la forma è un fantasma.
È un fantasma anche da un altro punto di vista. Nel tempo stiamo scoprendo anche altri livelli di significato in questo nome. Per esempio, Enzo Mari veramente pensava che nel rigore della forma, in una specie di forma assoluta, si potesse raggiungere una specie di forma di verità. Ecco, nel mondo in cui viviamo sappiamo invece che la forma può essere molto illusiva e che dietro una realtà che sembra ineccepibile in realtà si possono nascondere profondi orrori. Quindi è un po’ questo.
AT: I mostri, non i fantasmi.
PF: Perché il fantasma non è necessariamente mostruoso. Il fantasma può essere anche buono, può essere anche uno spirito, un lare che ti protegge. Insomma, non deve essere necessariamente il mostro che non ti fa dormire la notte.
AT: Esatto.
PF: Il vostro sito, oltre a essere chiarissimo nella forma, è un sito sostenibile. Cosa vuol dire? Come si fa un sito sostenibile?
AT: Vai sempre tu, poi ti vengo dietro.
SF: Ecco: qua si vede come ci dividiamo, generalmente parlo più io.
PF: Il pattern sta emergendo chiaramente.
SF: Andrea sta più dietro le quinte. In realtà è il boss però, è lui.
Quando abbiamo cominciato a ripensare il nostro sito, in realtà Gregorio, che è un ragazzo che lavora con noi in studio da anni, ha detto “Invece di preoccuparci di come debba essere, preoccupiamoci come potrebbe il sito in qualche modo rappresentare in sé l’ethos dello studio”.
E siccome in quel periodo avevamo fatto un lavoro che si chiamava Ore Streams, che guardava gli scarti dell’industria elettronica, il problema di come l’elettronica stia cambiando le nostre vite, ma anche il paesaggio degli scarti e della necessità di stabilire dei processi di riciclo in modi più sofisticati, ci sembrava interessante fare una riflessione anche su internet e la virtualità, come in realtà uno strumento che ha un profondo impatto nella realtà fisica, nell’infrastruttura di internet, in realtà è uno strumento estremamente pesante, fatto di cavi che devono connettere paesi diversi via e via dicendo, di materiali rari che abbiamo utilizzato per costruire i nostri strumenti digitali.
E quindi avevamo cercato di fare un sito che fosse il più leggero possibile dal punto di vista grafico dell’interfaccia, e che consumasse la minor quantità di energia possibile, il che comporta anche un esercizio in chiarezza. Per esempio, noi abbiamo fatto un diagramma per comprendere i passaggi che fa un visitatore tipo, quando ricerca delle informazioni base. Quindi è un sito, per esempio, estremamente non iconografico all’inizio, quindi una persona arriva nella home page, capisce di cosa si tratta più o meno il sito, e solo in un secondo momento, se comincia a scoprirlo, troverà delle immagini, perché le immagini ovviamente sono lo strumento digitale più pesante da scaricare, quindi consuma più energia, e via dicendo.
Quindi è un esercizio di capire come ad ogni livello si possa ottenere uno strumento efficace, esteticamente elegante, piacevole e ovviamente…
AT: Poi diciamo che quello che è stato attuato è una parte rispetto a quello che volevamo effettivamente fare. Racconto solo un piccolo aneddoto che è divertente. In realtà non è una ricerca che ci siamo inventati noi, ci sono tanti studi che lavorano con la grafica, che abbiamo tutti citati. C’è una parte di disclaimer nel sito dove raccontiamo anche tante altre pratiche che lavorano con quella tipologia di siti. E la parte più radicale del sito, che non siamo riusciti a fare, è quella di avere un piccolo server in studio con un piccolo pannello solare. Racconto il perché, adesso lo potremmo fare in realtà, in maniera tale che facciamo anche un owning noi, abbiamo noi il possesso dei nostri dati e anche in qualche modo il server è il nostro ed è solar based. Poi diciamo che in quel momento, quando abbiamo sviluppato il sito eravamo in Olanda, e non c’era molto sole; quindi, è per quello che eravamo stati molto scoraggiati. Però forse in realtà dobbiamo un po’ tornare indietro e provare a farlo di nuovo solare, perché secondo me sarebbe molto più efficace.
Però scusami, per finire, secondo me anche la cosa interessante di quel sito, che io non sento nessuna necessità dopo cinque anni di cambiarlo: È un sito che secondo me probabilmente resterà così per sempre, perché è molto funzionale, leggero, è updatabile in maniera molto semplice, è una di quelle cose che durerà nel tempo anche per noi.
PF: La prima volta in cui l’ho visto pensavo che fosse una pagina di Word, perché a fine è solo testo. Mi ha ricordato le primissime versioni di Craigslist, proprio queste cose di puro testo, di pura informazione, cosa che poi tendiamo a dimenticarci: un sito dovrebbe essere [pensato] per cercare informazioni.
SF: C’è ancora una cosa molto elegante. Studio Blanco, lo studio di grafica che ci ha aiutato per questo progetto, ha disegnato per noi un logo, che in realtà non è un logo, perché è un unicode. Formafantasma è scritto con un unicode, quindi nemmeno il nome è un’immagine, ma in realtà lo puoi copiare e incollare quindi in un formato di testo. I grafici un po’ nerd capiranno di cosa stiamo parlando.
PF: Da anni mettete in piedi uno dei progetti più folli del fuorisalone, Prada Frames. Si tratta di un simposio che affronta il rapporto tra natura e design, con relatori illustri da tutto il mondo. L’edizione del 2022 era intitolata “On Forest”, e indagava la foresta come ecosistema. Quella del 2023 era “Materials in Flux”, nella quale al centro c’erano materiali e rifiuti e scarti. Nel 2024 il tema era “Being Home”, per riflettere sul rapporto tra privato e pubblico. Allora mi chiedo, quale sia la magia con la quale riuscite a fermare le persone nel delirio del Fuorisalone per ascoltare dei discorsi, anche tutto sommato non di puro intrattenimento, ma di approfondimento e di ragionamento vero. Come fate?
AT: Devo dire la verità, abbiamo la fortuna di lavorare con un marchio che mette la cultura al centro, quindi abbiamo trovato il giusto interlocutore, che non si è spaventato la prima volta che abbiamo presentato il progetto, grazie anche a una richiesta illuminata dalla signora Prada, di lavorare a un progetto più educational per il Salone. Poi doveva essere un progetto diverso rispetto a quello che è diventato, però ci ha dato l’opportunità di fare quello che vogliamo fare, cioè parlare di problemi del mondo, e utilizzare anche il potere economico di una ditta come Prada per portare insieme un gruppo di persone che secondo noi sono interessanti e che possono dire qualcosa sul mondo in cui viviamo.
SF: Credo che la differenza l’ha fatta anche incontrare un interlocutore come la signora Prada, che non solo ci ha supportato nel progetto, ma addirittura l’ha reso più radicale. La magia di quel progetto è credere che le persone siano interessate al contenuto. Guarda, una delle cose che trovo più preoccupanti è quando parliamo con giornalisti, curatori, persone della cultura, che si riferiscono al proprio pubblico come delle persone che siano necessariamente meno intelligenti di loro. Questa cosa è estremamente problematica, ed è problematica perché si presuppone, prima di tutto, che le persone si spaventino dalle cose che non sanno. Spesso è così. Ma non si racconta, non si dice, che non sapere è una condizione del tutto umana che appartiene a tutti. Ognuno ha il proprio bagaglio di conoscenza. Io non ho idea di come si possa cucinare certi cibi, di come si possa cucire un paio di pantaloni, di come si possa aggiustare il tubo del lavandino se si rompe. So altre cose. Ecco, bisogna dimenticare questa cosa e fare in modo che le persone non si spaventino delle cose difficili ma importanti. Poi è ovvio che cerchiamo di farlo in modo chiaro, in modo interessante, in modo piacevole, non troppo lungo.
AT: Sì, esatto. Secondo me la cosa interessante di Prada Frames è il formato. Dall’anno scorso abbiamo cominciato un po’ a cambiarlo, farlo più piccolo, anche molto più intimo. L’anno scorso, perché era sulla casa, l’abbiamo fatto nel bagno e nelle cucine di una casa molto particolare, quella dei Bagatti Valsecchi. Credo [abbia successo per] il formato e il [per il] fatto che sono molto tight; quindi, sono discussioni che possono andare dai 5 minuti, quindi un po’ un TED Talk, ai 15 minuti, o magari delle conversazioni un po’ più lunghe. Chiaramente i posti che scegliamo sono tutti molto belli e devo dire che la cosa bella è che abbiamo l’aiuto di un’azienda che sa produrre eventi. Per esempio, l’anno scorso era molto complicato in realtà, il modo in cui abbiamo prodotto Prada Frames, però era tutto molto naturale, smooth. Sono bravi, sono bravi loro e probabilmente siamo bravi noi a scegliere le persone giuste.
SF: Però devo dire un’altra cosa. Non è un progetto facile per un marchio come Prada. E devo dire che c’erano anche delle resistenze interne al marchio, poi la signora Prada ha detto “No, crediamoci, andiamo avanti” e probabilmente adesso non è ancora [sicuro] però arriveremo alla quarta edizione.
PF: Certo. E ricordo che è completamente gratuito, oltretutto.
SF: Sì, assolutamente gratuito.
PF: Ci si iscrive, ci sono delle liste d’attesa anche piuttosto lunghe, però è una cosa gratuita, per cui in puro spirito Fuorisalone. Ecco, diciamo che c’è anche quello.
A proposito di Fuorisalone. Quest’anno, nel 2024, avete collaborato con Giustini/Stagetti per il progetto “La casa dentro” che ora riproponete nella sede della Galleria a Roma. Per questo motivo proprio ci troviamo a Roma per registrare questa puntata. Avete spinto l’acceleratore ed è nata una collezione di pezzi che uniscono forme lineari con un decorativismo al limite del kitsch, che combinano superfici piane drittissime, alla Rietveld con decorazioni quasi tirolesi, un po’ leziosette. Qual era l’intento che vi ha portato a creare questo contrasto? All’inizio, ve lo dico molto chiaramente, quando l’ho vista a Milano la prima volta sono rimasto molto molto titubante. Rivedendola a Roma, rileggendo il catalogo, mi è arrivata molto meglio, l’ho capita di più. Non so se è una questione di tempo necessario, perché il progetto era molto complicato. Questa è la mia esperienza da puro utente e osservatore. Vorrei sentire qual è l’intento che vi ha portato a realizzare questo lavoro.
SF: Intanto dobbiamo dire che è un lavoro per cui noi eravamo nervosissimi. Prima di presentarlo eravamo veramente molto nervosi, infatti credo che abbiamo torturato anche chi si è occupato della produzione. Ci sentivamo molto insicuri, per motivi molto personali. Prima di tutto è il primo lavoro strettamente personale. Ovviamente tutti i nostri lavori sono personali perché sono frutto del nostro lavoro e della nostra passione, però questo lavoro in specifico è derivativo di esperienze personali che abbiamo vissuto negli ultimi anni. Io ho perso i genitori negli ultimi anni, entrambi i genitori. Per Andrea, adesso i genitori, stanno bene, ma anche lui ha avuto delle difficoltà in famiglia. E ci siamo trovati a vedere le case di famiglie a vuote, a gestire oggetti che appartengono al nostro vissuto, ma che non sentiamo possano appartenere alla nostra di casa, al nostro modo di vita. E ci siamo resi conto che lo spazio domestico lo abbiamo interiorizzato in due modi: uno è quello del vissuto e l’altro è quello intellettuale, quello che abbiamo appreso studiando. E ci siamo chiesti da dove arriva il nostro rifiuto per alcune cose che abbiamo amato profondamente.
Ci siamo riletti dei testi teorici di Le Corbusier, di Van de Velde, di Loos, e anche alcuni testi di alcune femministe che hanno guardato a quel lavoro da un punto di vista critico. È evidente che se si legge quei testi, si parla spesso della mascolinità come un valore, vista come una forma di razionalità assoluta, e del femminile come il modo dell’irrazionalità, del superfluo, del lezioso, dell’inutile. Però abbiamo pensato anche al lavoro delle persone che abbiamo conosciuto nelle nostre case di famiglia, delle nostre madri, delle nostre nonne che hanno rammendato, che hanno cucito. E abbiamo pensato che quel mondo avesse bisogno di una dignità che va riconosciuta e che invece il mondo non ha avuto il coraggio di riconoscere per motivi di tipo del tutto politici e legati a un genere, quello maschile, al famoso patriarcato, che ha deciso che quelle cose non appartenevano a un mondo intellettuale che va riconosciuto.
Ma quei rammendi, per esempio, quelle cuciture, non erano leziosi, servivano per esempio ad allungare una coperta che magari non era più lunga abbastanza da coprire il letto di un bambino. Quel mondo che non è stato riconosciuto, quello per esempio dei ricami, del decoro, spesso non erano solo dei ricami o dei decori, ma erano degli strumenti, per esempio, per rammendare delle cose che erano rotte, per recuperare dei materiali che avevano ancora dignità ma necessitavano di essere ricomposti.
Il lavoro cerca in qualche modo di coniugare questi due mondi, quello appunto intellettuale della domesticità che abbiamo appreso e quel mondo in qualche modo scomparso che però ha costruito veramente il senso di domestico che abbiamo conosciuto durante la nostra infanzia. Comunque quello che tu dici sul fatto che il lavoro ha delle componenti leziose, era la cosa che ci preoccupava di più, perché temevamo che potesse essere letto solo in quel modo, oppure come un esercizio postmoderno sul camp, sul kitsch, che non vuole assolutamente essere quello.
PF: No, infatti.
SF: In realtà recupera delle forme anche di decoro o di estetica che è molto riconducibile al lavoro, per esempio, di autori che hanno lavorato negli anni ’20 e negli anni ’30.
PF: Certo.
SF: Poi, quando veramente il modernismo è diventato un linguaggio, quel tipo di modernità è arrivata a veramente eroso quelle componenti. Ci sono degli elementi totalmente anche subconsci nel lavoro, perché non avremmo mai pensato nella nostra vita di disegnare una chaise longue, che è un oggetto che odiamo. Perché cosa te ne fai della chaise longue? Poi ingabbia il corpo, insomma. Però nel caso specifico era importante. Tra l’altro è un oggetto che esemplifica due cose importanti per questo lavoro. La chaise longue è l’oggetto quasi iconico del modernismo, se pensi a quella fatta da Perriand e Corbusier, ma è anche l’oggetto della psicanalisi. Il cabinet ha una proporzione che può essere quella dei cabinet che trovi nelle sale d’ospedale, che hanno quelle proporzioni per una permanenza temporanea. Quindi c’è anche molto subconscio che è finito in questo lavoro, che però, devo dire, ha aperto un discorso che pensiamo che probabilmente porteremo avanti ancora, perché è incredibilmente interessante.
PF: Qual era il vostro sogno professionale da bambini? Cosa volevate fare da grandi?
SF: Io da piccolo, alle elementari, forse prima volevo fare il postino.
PF: Bellissimo!
AT: Non lo so. È una di quelle domande che mi faccio spesso, ma non me lo ricordo. Non lo so, io penso che potrei fare il designer come potrei fare il comandante di un aereo, non lo so. Io sono una persona molto disciplinata, quindi se penso che posso fare il comandante aereo, divento comandante d’aereo, quindi non lo so.
SF: Disciplinata e ambiziosa.
AT: Non so disegnare bene, quindi non è che per forza sarei dovuto diventare un designer, ecco.
PF: Ragazzi è arrivato il momento della raffica!
SF: Non vedo l’ora, è davvero divertente.
PF: Sì, sì, tutti la aspettano, la temono, crea movimento, mi piace. Allora, vi ricordo, sono dieci domande a sorpresa, dieci domande a testa, solo risposte secche. Avete una possibilità di passare a testa e una possibilità di argomentare. Uno risponde alle pari, uno risponde alle dispari e facciamo ping pong. Chi vuole cominciare?
AT: Simone, ovviamente!
PF: Allora partiamo da Simone: tu hai quelle dispari e Andrea ha quelle pari. Prima domanda, design italiano o design scandinavo?
SF: Design italiano.
PF: Design scandinavo o design americano?
AT: Design americano.
SF: (esclama sorpreso)
PF: Si scoprono cose con la raffica! Una vostra installazione agli Uffizi o a Brera?
SF: Uffizi.
PF: Una vostra installazione per il Museo di Capodimonte o per i Musei Vaticani?
AT: Beh, Musei Vaticani, totalmente!
PF: Siamo a Roma, ci sta! Una collaborazione impossibile: Formafantasma con Charles e Ray Eames o Formafantasma con Lella e Massimo Vignelli?
SF: Charles e Ray Eames.
PF: Una collaborazione impossibile: Formafantasma con i Fratelli Castiglioni oppure Afra e Tobia Scarpa?
AT: Afra e Tobia Scarpa.
PF: Vino bianco o vino rosso?
SF: Rosso.
PF: Vino o birra?
AT: Vino.
PF: Stampa 3D o tornio?
SF: Tornio.
PF: Tornio o stampaggio rotazionale?
AT: Tornio.
PF: Il tornio vince alla grande, proprio! Film al cinema o a casa?
SF: Passo.
PF: Film o serie TV?
AT: Serie TV.
PF: Una notte in tenda nel deserto del Sahara o una notte in un campo base in Antartide?
SF: Campo base in Antartide.
PF: Su questa ero abbastanza sicuro che avresti risposto così. Una settimana a scoprire la natura, alle Hawaii o in Nuova Zelanda?
AT: Nuova Zelanda.
PF: Biennale arte o Biennale architettura?
SF: Arte.
PF: Art Basel Basilea o Art Basel Miami Beach?
AT: Basilea.
PF: Venezia o Catania?
SF: Venezia.
PF: Palermo o Vicenza?
AT: Palermo.
PF: Non c’è discussione qua. Basta, finito.
AT: Grazie mille.
PF: Bravi, no no, bella, bella. È venuta bene la raffica, mi piace, mi piace, grazie. La domanda finale del podcast, la classica che faccio a tutti. Consigliateci un libro che è stato per voi importante e che dovremmo leggere tutti noi. Ovviamente una testa.
SF: Io direi la, la produzione di Donna Haraway, ”Cyborg Manifesto” e ”Staying with the Trouble”. L’ultimo è, non so come è tradotto in italiano, il titolo in inglese è ”Staying with the Trouble” che è rimasto per noi importantissimo.
È un’idea bellissima quella che non si tratta più di guardare in avanti, verso un futuro e chiedersi come sarà il futuro, ma radicarci nel presente, restare nei problemi e cercare di capire come possiamo vivere in questo momento scomposto e muddy, complesso.
PF: Fangoso.
SF: Fangoso, esatto.
AT: Io probabilmente invece direi, beh ne potrei dire tanti, forse però Emanuele Coccia ”La vita degli alberi” [”La vita delle piante. Metafisica della mescolanza”] mi sa che si chiami in italiano, che è un libro bellissimo, filosofico ma che racconta il mondo degli alberi e gli alberi in maniera molto vivida e molto, quasi vorrei dire la Miyazaki, nel senso che riesce a raccontare con le parole, dipinge quasi un quadro con le parole. È un libro bellissimo, quindi Emanuele Coccia direi.
PF: Bene, grazie ragazzi.
SF: Grazie a te.
AT: Grazie a te.
Puntata registrata in studio a Roma il 4 ottobre 2024 e pubblicata il 15 ottobre 2024.
La trascrizione è stata effettuata utilizzando strumenti di intelligenza artificiale e successivamente editata dall’autore.
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