Parola Progetto About
STAGIONE 6 — EP. 11

Mauro Porcini: il design come atto d’amore

07/2024 — 42:46

Mauro Porcini è un innovatore innamorato delle persone. Lo dimostra con il suo lavoro di Chief Design Officer di PepsiCo, ma anche i concetti che attraversano il suo libro “L’età dell’eccellenza. Innovazione e creatività per costruire un mondo migliore”, che nell’edizione inglese è diventato “The Human Side of Innovation: The Power of People in Love with People”. E proprio amore e bontà diventano per lui valori strategici, capaci di definire profondità e successo di gruppi grandi e piccoli.
In questa puntata Mauro ci racconta del suo percorso professionale, dei piccoli e grandi passi che lo hanno portato a innovare per lavoro, di come fare design senza dimenticare di mettere al centro gli esseri umani.

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I link dell’episodio:

– Il sito di PepsiCo Design https://design.pepsico.com

– Il sito ufficiale di Mauro https://www.mauro-porcini.com

– Il libro di Mauro Porcini “L’età dell’eccellenza” https://www.ilsaggiatore.com/libro/leta-delleccellenza/

– La versione inglese “The Human Side of Innovation. The Power of People in Love with People” https://www.bkconnection.com/books/title/The-Human-Side-of-Innovation

– La biografia di Richard Branson “Losing and Finding My Virginity: The Full Story” https://www.penguin.co.uk/books/463277/losing-and-finding-my-virginity-the-full-story-by-branson-richard/9780753561102

PF: Sono Paolo Ferrarini e questo è Parola Progetto.

Parola Progetto è un podcast di dialoghi con persone che vivono di progetti, dove si racconta il design in tutte le sue forme, senza oggetti e immagini, solo attraverso la parola.

Ed eccoci qua.

Oggi a Parola Progetto parliamo di design, creatività e innovazione e lo facciamo con Mauro Porcini. Laurea al Politecnico di Milano, Mauro inizia la sua carriera nel Dipartimento di Design di Philips. Dopo questa esperienza fonda lo studio Wisemad con Claudio Cecchetto, ma lascia l’Italia per diventare Chief Design Officer di 3M.

Nel 2012 assume il ruolo di CDO di PepsiCo, con l’obiettivo di mettere la cultura del progetto al centro dei prodotti e dei processi della multinazionale americana. Nella primavera del 2021, Mauro pubblica il suo primo libro, “L’età dell’eccellenza”, che nel 2022 diventa “The Human Side of Innovation”. Tiene conferenze in tutto il mondo e cura il podcast “In Your Shoes“. Con lui parleremo di innovazione, di eccellenza e di passione. Quella passione che diventa vero e proprio amore.

Ciao Mauro, benvenuto a Parola Progetto.

MP: Grazie di avermi qui, ma sono stato estasiato proprio dalla tua introduzione. A un certo punto hai detto “persone che vivono di progetti”.

PF: Eh sì, eh sì.

MP: È pazzesco, perché è una definizione bellissima degli innovatori. Sono persone che hanno bisogno di progetti per vivere. Non mi vedrei mai come una persona che si ferma, che non ha progetti di ogni genere, da rimodernare qualcosa nella casa. Adesso sono in progetto di fare un nuovo figlio. Ho progetti sul lavoro, ho bisogno di progetti.

PF: Bellissimo. E allora sei perfetto per Parola Progetto! Per cui, benissimo. Partiamo dalla domanda più ovvia, quella che ti avranno fatto un milione di volte. Cosa ci fa un chief design officer in un’azienda come PepsiCo?

MP: Progetto. Ma nel significato etimologico del termine, questa idea di proiezione verso il futuro, cioè capire dove stiamo andando innanzitutto come società, non come azienda, come brand, ma dove sta andando il mondo. Quindi come le persone si comporteranno nel futuro, tra vent’anni, tra trent’anni, come comunicheranno tra di loro, come interagiranno quindi anche con brand, con il cibo, con le bevande. E quindi che ruolo avrà un’azienda come PepsiCo in quel futuro. Da lì poi si torna al presente, perché alla fine queste aziende sono quotate in borsa e devono fare fatturati trimestre dopo trimestre, e si cerca di capire come preparare quell’azienda al futuro. Quindi si parte da quegli scenari, quelle visioni di quel futuro, quale sarà il nostro portfolio tra vent’anni, poi si torna ad oggi e succedono quattro cose. Quel tipo di visioni informa le nostre acquisizioni, si inizia ad acquisire aziende, nel nostro caso per esempio Sodastream, che è una piattaforma di sostenibilità per noi, non è solo un’azienda che fa gasatori di acqua potabile.

Un’altra direzione complementare è quella delle joint venture, delle partnership, delle acquisizioni di piccole quote in start-up complementari al nostro business, che servono comunque da volano, da veicolo, per avvicinarci a quel futuro possibile, accelerando quell’avvicinamento, comunque gestendolo con rischi più controllabili.

E la terza direzione è l’innovazione fatta dall’interno, però l’innovazione, quella che chiamiamo breakthrough, deve avere un vantaggio competitivo forte, difendibile nel tempo; quindi, è un’innovazione che di solito è legata a un’innovazione tecnologica.

E la quarta, l’innovazione invece più veloce, la chiamiamo quick cycle, dà l’idea al lancio sul mercato in media sei mesi. Il mercato di solito è piccolo, può essere un piccolo paese in giro per il mondo, per noi azienda americana, o le piattaforme web, e si valuta immediatamente la qualità di quel progetto, se funziona o non funziona, se non funziona lo si abbandona, se funziona ci si investe ulteriormente, ma soprattutto l’obiettivo principale è estrarre informazioni, dati per ispirare poi gli altri tipi di innovazione. Un po’ quello che faccio oggi.

PF: Quindi non ti occupi solo di disegnare i nuovi packaging o rimodernare i loghi?

MP: No, anche se quando mi chiamò PepsiCo nel novembre 2011, quello pensavo che mi avrebbero chiesto. Infatti, ho detto “non sono interessato” alla recruiter, e lei mi disse “no, senti per favore, parlami”, le ho parlato e poi mi ha detto “vieni a incontrare la CEO di PepsiCo Indra Nooyi a New York, e il presidente di Global Beverage Brad Jackman”, quindi presi un aero, andai. Anche lì la curiosità: la curiosità è una caratteristica fondamentale degli innovatori, sicuramente mi è servita molto negli anni, quindi andai letteralmente per curiosità. Stessa cosa successe in 3M, non ero interessato, andai per curiosità. Andai e la conversazione con Indra mi cambiò veramente la prospettiva su quello che era possibile. Quindi oggi ci ritroviamo a proiettarci verso il futuro, a creare soluzioni oggi con quest’ossessione per l’essere umano.

Se devo definire cosa fa il design rispetto al marketing, alla strategia, io chiamo i designer gli “ambasciatori dell’essere umano” in queste aziende. Siamo un po’ la voce della coscienza, siamo “people in love with people, noi siamo ossessionati dall’idea di creare valore, creare convenienza e sicurezza, funzionalità, bellezza, gioia negli utenti, negli elementi nei quali gli utenti, e poi diciamo “va bene, una volta che hai creato quello poi verrà anche il valore finanziario”. Sto semplificando ovviamente. Mentre l’altra sponda, il mondo del business, parte dal valore finanziario e dice “vabbè, il prodotto è una leva, la comunicazione è un’altra leva, ma ce ne sono tante, anche se un prodotto mediocre posso vincere lo stesso, se ho le giuste barriere all’entrata, la giusta distribuzione eccetera eccetera”.

PF: E tutto questo lo fai con un team globale, perché non lavori solo con le persone che sono con te nello studio principale che è a New York, e l’hai fatto anche in precedenza. Ad esempio, con 3M avevi un centro di ricerca negli Stati Uniti, uno in Italia, uno in Cina e uno in Giappone. Oggi con Pepsi: New York, Dallas, Chicago, Los Angeles, Orlando, Miami, Londra, Dublino, Mosca, Il Cairo, Nuova Delhi, Bangkok, Shanghai, Città del Messico, San Paolo, Città del Capo. Sembra il Risiko.

MP: Istanbul è l’ultimo. Stiamo considerando adesso Beirut.

PF: Due domande in una: come selezioni i talenti che entreranno a far parte del tuo team e come li gestisci?

MP: È stata una delle sfide più grosse del mio lavoro in questi anni. La gestione, la selezione, la crescita, la collaborazione con i talenti è probabilmente la parte fondamentale del mio lavoro, alla fine, perché se cercassi di lavorare su tutti i progetti su cui lavoriamo (e sono centinaia ogni volta) al di là dell’infattibilità pratica e materiale, diventerei un imbuto che bloccherebbe il potenziale dei team. Quindi già parecchi anni fa, ormai saranno 16-17 anni fa, mi resi conto che dovevo essere molto più strategico sulla selezione dei team e la definizione di quelle caratteristiche che queste persone dovevano avere. Anche perché mi ero reso conto che erano veramente il fattore chiave che faceva la differenza tra il successo e il fallimento dei progetti. Mentre spesso queste aziende incolpano poi i processi e tante altre variabili che ci sono all’interno di questi progetti, la realtà dei fatti, nella mia esperienza, è che la maggior parte delle volte il problema sono le persone assegnate a quei progetti: la loro capacità di sognare, di pensare in grande, la capacità di stare attenti ai dettagli, all’esecuzione, la capacità di fare lavoro di gruppo, la capacità di prendersi i rischi, la capacità di intuire quello che le persone vogliono al di là di quello che ti dicono, e così via.

Quindi se le caratteristiche devono essere importanti, era altrettanto importante definirle in modo chiaro e utilizzarle in modo strategico. E quindi cosa feci? Subito, senza tanti strumenti e tante ricerche, ho iniziato a scrivermi su un pezzo di carta quali erano quelle caratteristiche che vedevo nelle persone che avevano successo, in me stesso quando avevo fatto delle cose che andavano bene, e poi in tanti innovatori che avevo incontrato nell’arco della mia vita. E diedi questa lista – c’erano una decina [di caratteristiche] ai tempi – alle risorse umane, a Talent Acquisition, e dissi “usate questa lista per trovare le persone”.

Nell’arco degli ultimi 17 anni quella lista si è evoluta, l’ho validata in tanti modi diversi, e ora è una lista di 24 caratteristiche che si possono trovare sui miei libri. La metà del libro “L’età dell’eccellenza” qua in Italia è focalizzata appunto su queste caratteristiche. Sono state fondamentali, uno, come hai detto prima, per filtrare i talenti esterni, per fare in modo che assumessimo le persone giuste. Il fatto che l’abbia pubblicata non solo in un libro adesso, ma in passato attraverso articoli, interviste, conferenze, è stato importante per far sì che le persone che si approcciavano a PepsiCo sapessero che volevo quel tipo di mentalità, e al contempo è stato importante per ispirare persone che non avevano considerato PepsiCo a eventualmente considerare l’azienda.

Nell’arco del tempo poi ha avuto anche altri valori, è diventato uno strumento per identificare le persone dentro l’azienda che volevamo crescere, non solo quelle che erano brave a fare i progetti design, che erano brave con il business, ma le persone curiose, le persone buone, persone ottimiste, tutta una serie di caratteristiche che sono in quella lista che non ti aspetti quando dici “questa persona è pronta per diventare il design leader dell’Europa o dell’Asia o dell’innovazione”. E poi il terzo valore importante: è diventato uno a bussola per me. E questo è interessante per tante persone che cercano di migliorarsi nei loro ambiti, nel corso della loro vita. Ovvero, nel momento in cui io pubblico tutta una serie di caratteristiche che gli altri devono avere, che gli innovatori devono avere, è ovvio che la gente guarderà me per capire se le ho. Ora, queste 24 caratteristiche non le ha nessuno al mondo all’estremo, tant’è che questi innovatori li chiamo gli unicorni, perché non esistono. Quindi è un’attenzione che tu devi avere verso quel tipo di perfezione che è divina, che non esiste. Ma è una delle caratteristiche fondamentali del credere negli unicorni. È credere che devi passare il resto della tua vita a migliorare. Ora, il problema è dove migliorare ed è lì che avere una lista. Io mi sono creato la mia e l’ho condivisa, può essere utile a qualcuno. Magari chiunque si può creare la propria lista, ma [devi] sapere dove investire. Quindi, sapere che quando io interagisco con le persone, mi guardano e dicono “ma lui è davvero buono come dice”, “lui è davvero resiliente come dice”, “ottimista come dice”, “curioso come dice”, “visionario come dice”, “attento all’esecuzione come dice”. Mi guardano e quindi io ho questa pressione su me stesso a cercare di essere la versione migliore di me in tutte quelle dimensioni, sapendo che non posso essere perfetto in tutte. Ed è stato molto utile per crescere quotidianamente.

PF: Mi piace molto questa cosa che hai detto di far crescere le persone che già sono all’interno dell’organizzazione, che magari sono nascoste dietro una routine o a dei processi che per pigrizia o per abitudine si fanno, o magari per l’ottusità o la mancanza di tempo da parte del management. In “L’età dell’Eccellenza” racconti la storia di Slim, dico giusto?

MP: Stephen Lim, detto Slim.

PF: Era proprio parte del nucleo originario e lavorava in azienda. Sei riuscito comunque a portarlo con te, mentre l’altro elemento del nucleo originario, un tuo collega di cui non ricordo il nome…

MP: Martin Broen.

PF: …che hai portato da Milano. Hai creato proprio il nucleo fondativo del tuo team, del tuo lavoro, perché era una figura che non esisteva, giusto? L’hai fatta tu.

MP: Esatto.

PF: Hai preso qualcosa da dentro e qualcosa da fuori; quindi, evidentemente questa visione informa ancora oggi il modo di lavorare.

MP: È la complementarità di background diversi. Stephen era un ingegnere, arrivava dalla ricerca e sviluppo, però aveva una passione per il mondo del design. Martin aveva la sua agenzia, era un designer, all’inizio lavorava da Continuum, poi aveva creato la sua agenzia qua a Milano. Dopo, nell’arco degli anni, ho portato dentro persone veramente diverse l’una dall’altra, ma sempre cercando di capire come creare l’unione perfetta tra queste persone. È molto complicato.

Oggi la mia sfida più grande, al di là di trovare questi talenti e farli e crescere all’interno dell’azienda, è capire come trovare persone che sono in qualche modo i migliori nei loro ambiti, è come farle lavorare nel modo migliore possibile insieme. E soprattutto quando inizi ad avere persone veramente forti nel loro ambito (magari persone che sono state anche anni in azienda, hanno fatto delle cose veramente visibili, incredibili, di grande successo) ci vuole un attimo a cadere nella trappola della tua arroganza, o del “so tutto io”. Magari quando introduci persone nuove nei team, ci sono i “baroni”, il gruppo storico e i gruppi nuovi, io lavoro tantissimo sui team, in modo diverso.

Per esempio, recentemente, qualche mese fa, ho portato tutto il mio leadership team in Sudafrica, perché abbiamo un team lì, a Johannesburg, e uno a Cape Town, di design, ma anche perché Sudafrica è un posto magico. Non ero ancora stato lì, ma ero stato a fare safari in Kenya, in Tanzania, svariate volte. E sono quei momenti, quando vai nella savana, a contatto con la natura, con il mondo degli animali, in cui veramente ritrovi te stesso. Sono dei momenti veramente incredibili. E quindi li ho voluti portare in Sudafrica, dove abbiamo fatto il nostro off-site, in un ambiente comunque completamente diverso, incontrando chef, ex criminali che sono diventati chef. Ci hanno raccontato la loro storia, che era pazzesca, perché questi ragazzi sono nati in un ambiente in cui o diventavi criminale o diventavi una vittima dei criminali, però erano persone buone, lo vedevi. A un certo punto hanno cercato di emanciparsi, ho i brividi a raccontarlo, perché è difficilissimo uscirne. Però a quel punto questo ragazzo era diventato uno chef, grazie a questi vignaioli che gli hanno dato un’opportunità, e di solito non dai un’opportunità a questi criminali. Delle storie pazzesche! Poi siamo andati a fare questo safari di tre giorni, e anche lì contatto con la natura, eccetera eccetera.

Perché cito tutto ciò? Perché per creare queste connessioni non basta il progetto, il meeting. Devi veramente cercare di creare delle connessioni olistiche a 360 gradi tra esseri umani. Noi siamo esseri umani e ci comportiamo in un determinato modo sul posto di lavoro, ma gli stessi esseri umani sono quelli che poi tornano a casa e hanno le famiglie da gestire, hanno le proprie difficoltà, le proprie depressioni, le proprie gioie. E quindi cercare di creare connessioni che non sono solo sul mondo del lavoro, ma che ti tirano fuori da quel contesto, è fondamentale per il lavoro. Lo dico perché molte aziende vedono questo e pensano “ah, stanno perdendo tempo, si stanno divertendo”. In realtà quella connessione che sei riuscito a creare, magari è il Sudafrica, ma magari è una cena che fai fuori dal contesto lavorativo, non deve essere solo quell’esempio estremo, ti permettono quando poi succede una difficoltà sul mondo del lavoro, la settimana successiva, l’anno successivo, di prendere il telefono e in una telefonata risolvere tutto nell’arco di secondi. Perché parti da un presupposto di connessione, di positive intent, come lo chiamano gli americani. Sai che l’altra persona è lì e ci tiene a te, e sai che è lì per ascoltarti e che potete risolvere le cose insieme, ed è fondamentale.

PF: Quante persone ci sono nel tuo dipartimento ormai?

MP: Il conto è difficile da tenere perché continuiamo a crescere, siamo intorno ai 350 ormai.

PF: È un’azienda nell’azienda.

MP: Eh sì. Per me quando abbiamo superato i 50, è stato un passaggio epocale, perché in 3M non avevo mai superato i 50. In PepsiCo per qualche anno non li abbiamo superati. Quando superi i 50 – dico 50 giusto per dare una dimensione – inizia ad essere difficile avere un rapporto personale con tutti. E quindi ho dovuto imparare veramente a investire ancora di più sul mio leadership team, perché loro dovevano essere in tutto e per tutto quelli che rappresentavano la mia visione con persone con cui interagisco magari una volta l’anno. Soprattutto se il team è a Bangkok o a Cape Town o a Dublino o in altre parti del mondo. Persone, persone, persone ancora una volta. Il lato umano dell’innovazione.

Quando si parla di lato umano dell’innovazione non sono solo gli esseri umani che serviamo, ma gli esseri umani che fanno innovazione. E quando parliamo di design, di design thinking in particolare, tanti parlano di processi, di strumenti, di metodologie. La realtà che alla fine è sempre legato a come ragionano, come si muovono, come pensano questi esseri umani. Nella tradizione del design italiano questo è abbastanza ovvio, perché hai il designer star, hai l’imprenditore illuminato, hai spesso il tecnologo, l’artigiano, l’ingegnere dietro le quinte che non compare mai ma che rende possibili i sogni di questi due visionari. E quindi questi due visionari hanno un palco, hanno una notorietà e non hanno tante complicazioni perché parlano tra di loro. Quando inizia ad arrivare ai palchi delle multinazionali hai 300 e passa designer, ma poi hai decine di migliaia di business leader e centinaia di migliaia di impiegati nel nostro caso (noi abbiamo più di 300.000 persone in azienda). Quando ridisegno Pepsi e dobbiamo lanciarla in giro per il mondo, io – intendo i miei team, chi si occupa di quel progetto – dobbiamo in qualche modo riuscire a capire come energizzare, influenzare 300.000 persone solo dentro l’azienda più tutti i nostri partner esterni. La complessità è grande e quindi la sinergia tra persone, il lato umano, la mentalità giusta sono fondamentali e devo essere super strategico su questo punto.

PF: A proposito del libro “L’età dell’eccellenza”, mi è molto piaciuto l’andamento non lineare di questo libro. La struttura è chiarissima, però l’andamento passa dal micro al macro, vai dalla biografia alla teoria, parti dai racconti in prima persona, la tua vita, la tua carriera, le tue scoperte, per affrontare poi i temi collettivi che riguardano tutti i designer, [come] innovazione, design, leadership. Nella sua versione inglese – che è leggermente diversa da quella italiana – il titolo è “The human side of innovation” ma so che tieni molto al sottotitolo che in un certo senso hai già un po’ anticipato: “The power of people in love with people” cioè il potere delle persone che amano le persone. Non è comune sentire usare la parola “amore” in un testo di innovazione e business? Perché la usi così spesso questa parola?

MP: Ma guarda, è partito tutto in modo intuitivo, naturale. Io sono cresciuto in un ambiente familiare di grande amore, in cui c’erano tre concetti fondamentali. L’idea di bontà, essere delle persone brave, buone, che per i miei si manifestava sotto forma di religione cattolica e tutti i propri principi, ma poi mi sono reso conto che quello di cui parlavano erano valori universali, trasversali a ogni tipo di religione o mancanza di religione. Il secondo era l’idea di cultura, di conoscenza e quindi investire sulla conoscenza e la cultura. Il terzo era la passione per quello che i miei genitori facevano. Nel loro caso non si allineava con i loro lavori. Mia madre lavorava agli uffici finanziari della città di Varese, li ha lasciati appena possibile a 38 anni, è andata in pensione a 38 anni e ha iniziato a dedicarsi ai figli ma soprattutto a quello che lei amava che era scrivere, ha iniziato a scrivere. Mio padre era un architetto, lavorava e insegnava disegno tecnico all’ITIS di Varese, ma la sua passione era dipingere, quindi dipingeva continuamente. Quindi io sono cresciuto vedendo queste due persone che facevano delle cose che amavano alla follia e le facevano tra l’altro al di là del loro lavoro. Poi nel mio caso sono stato fortunato, quello che amo coincide con il mio lavoro. Comunque, è un bel messaggio anche il fatto che non deve per forza coincidere, nel caso [in cui] non sei proprio fortunato come alcuni di noi sono. Però questi principi sono principi con cui sono cresciuto: questo amore per le persone che ti circondano, amore per la comunità e amore per quello che fai.

Quindi io ho creato i miei team nell’arco degli anni, ho avuto questo cammino un po’ anomalo per cui – con l’eccezione del primo anno in Philips – poi mi sono creato la mia agenzia e dopo ho fatto 10 anni in 3M e 12 anni in PepsiCo dove ho sempre creato i miei team. Quindi all’inizio in modo totalmente di pancia, intuitivo, mi circondavo di persone che avevano quelle caratteristiche: persone buone, persone che amavano quello che facevano con certi tipi di caratteristiche. A un certo punto, recentemente, 7/8 anni fa, mi son reso conto che questo era un vantaggio competitivo pazzesco per quello che stavamo facendo. E come? Quando ho iniziato ad avere tutta una serie di persone nel mondo del business in PepsiCo che venivano a me e dicevano “che bello lavorare con i tuoi team, ma sono proprio brave persone, è proprio bello passarci del tempo”. Li osservavo e a quel punto ho iniziato veramente a osservarli, come creavano connessioni veramente che poi trascendevano i progetti. E lì mi son reso conto che il nostro team lo faceva, ma tanti altri team non lo facevano. Nel momento in cui stavamo creando qualcosa di nuovo (che per definizione dà fastidio allo status quo, quindi dà fastidio all’organizzazione esistente perché pesti i piedi a tutti), questa capacità di creare connessioni, di creare fiducia, di creare una sinergia emotiva, di cuore reale, basata su questa idea di bontà, di amore, di appunto di fiducia reciproca, era un’arma competitiva pazzesca. Ed è lì che sono diventato un ambasciatore di questo tipo di approccio in modo molto più esplicito, perché comunque ce l’avevo già dentro da prima, è sempre stato così, ma lì ho capito che potevo legarlo a dei temi che avevano senso per le aziende: la produttività, l’efficienza, l’effectiveness, un’altra parola a chiave americana.  Cioè io mi ritrovavo, poi mi ritrovo tuttora quindi, nelle boardroom o nelle conferenze di business in giro per il mondo, interviste da magazine di business, a connettere l’idea di amore all’idea di produttività, di efficienza.

PF: Come si difende questa dimensione? Perché non è buonismo, è una forma di grandissima consapevolezza e immagino che non sia facile proteggere questa piantina così delicata. Come si fa?

MP: Due cose. Prima di tutto, come ho detto prima, parte da un istinto che mi piacerebbe fosse universale. Io non vorrei parlare di business e produttività quando parlo di amore, bontà, io vorrei che fossero da loro i motivi sufficienti per far sì che si insegni a scuola il valore dell’amore, dovrebbe essere insegnato a scuola, dovrebbe essere una materia di studio, per far sì che quindi tutta la nostra società, non solo delle aziende, fosse informata da questo tipo di valori. Non vorrei sentire persone che dicono “vabbè adesso io voto questo primo ministro, questo presidente che anche se è razzista, è misogino, ha tutta una serie di problemi a livello morale ed etico, però aiuterà il paese dal punto di vista economico”. I filosofi greci già ci hanno ricordato ai tempi, e poi da lì la storia dell’Impero Romano e così via, che quando i valori morali iniziano a sgretolarsi, tutto si sgretola, compresa la tua economia a cui tieni tanto. Io vorrei che fossero i principi fondanti a prescindere, però la realtà non è quella in cui viviamo e quindi come li difendo? Cercando di legarli a un qualcosa che sia importante per i miei interlocutori.

Ma qui si torna alla potenza della comunicazione e al modello della comunicazione di Jakobson che ricordo studiai ai tempi del Politecnico. La grammatica della comunicazione prevede un sender, (lo dico in inglese perché mi vengono in inglese), chi invia il messaggio, il messaggio, il ricevente, il codice, la piattaforma media, il contesto e dei rumori di fondo che accadono quando comunichi. Quindi, se in quel caso specifico, nella costruzione di queste funzioni design, i miei interlocutori sono i CEO, i Chief Marketing Officer, quelli della finanza, per me era fondamentale capire come lanciare un messaggio che fosse disruptive nel contenuto, nel codice, nel modo in cui lo facevo e nelle piattaforme. Il codice significa parlare di amore in un business dove nessuno ovviamente nel contesto di business parla di amore. Però era necessario trovare altri codici complementari che fossero invece recepibili da quel tipo di audience e quindi da lì produttività, efficienza, ROI di quello che facciamo, Return on Investment, e quindi scioccarli con una visione diversa, innovativa, dimostrare che quella visione porta vantaggio di business attraverso i progetti, perché senza quelli non sarebbe andato da nessuna parte, ma poi fargli capire che io capisco il loro linguaggio. Ora, per capirlo ho dovuto studiarlo e io ci ho passato gli ultimi 25 anni. Io sono laureato in design, non ho un MBA, non ho un PhD; eppure, ho visto nell’arco degli anni questi business leader e poi così tutte le funzioni, finanza, ricerca e sviluppo, ingegneria, tutti i vari mondi, questi personaggi come mentori, come professori, come coloro che mi avrebbero dato le nozioni che avrei potuto acquisire nel mio MBA e il mio PhD, perché capivo che dovevo imparare quei linguaggi per parlare loro. L’unicorno è poliglotta, è un’altra caratteristica dell’unicorno, quindi se vai e parli inglese a un giapponese che parla solo giapponese tu puoi essere bravo quanto vuoi con il tuo messaggio, ma questo non ti capirà. Quindi [si deve] parlare il linguaggio del business ma con una sfumatura diversa e inaspettata e poi portare risultati. Quindi così ho protetto quelle idee.

PF: Una cosa che dimostra chiarissimamente questo atteggiamento è il fatto che tu non ami la parola “consumatore” e su questo, grazie! Come mai non dobbiamo parlare di consumatore?

MP: Ma guarda, io a scuola da industrial designer, da designer di prodotto, non ho quasi mai sentito la parola consumatore perché guardavi le persone come gli utenti che usavano i tuoi prodotti. La parola consumatore è usata tantissimo nel mondo del marketing, del business. Il mio problema con la parola è prima di tutto di tipo etico e poi anche, ancora una volta, lo leggo sempre alle motivazioni di business. Di tipo etico perché se tu guardi una persona per cui tu stai progettando solo come il consumatore farai di tutto per fare un prodotto che venda al consumatore, gli dà una dimensione puramente di business. Tra l’altro è una parola che implica l’idea di consumare in una società in cui uno dei più grandi problemi che abbiamo è la scarsità di risorse; quindi, dà anche un messaggio negativo alla società in generale. Per lo meno se lo chiami utente inizia a cambiare il focus da quando compra a quando usa e quindi dice “va bene”, allora il mio obiettivo è cercare di creare qualcosa che crei valore per questa persona. Quindi già lì è un qualcosa che ha un valore morale superiore.

Se però inizi a chiamarlo persona, essere umano, se io in quella persona vedo mia figlia, vedo mia moglie, vedo i miei genitori, i miei amici, le persone a cui tengo, è ovvio che inizi a ragionare in modo diverso. Dici “ok, io voglio creare il prodotto migliore per questa persona, voglio sfruttare poi le risorse che ho, quindi il mio branding, le risorse economiche, le piattaforme per cui raggiungo questa persona nel modo migliore per aiutare questa persona e la società in cui vive”. E quindi tutta una serie di operazioni che puoi fare anche a livello di branding per far sì che l’azienda, il brand abbia un contributo positivo alla società.

Perché alla fine queste aziende che fatturano miliardi e miliardi di dollari e comunicano costantemente alle persone hanno una responsabilità morale e un’opportunità pazzesca. Quindi devi farlo in modo autentico, devi capire che ci sono dei brand che non è che possono mettersi a fare discorsi politici o discorsi di un certo tipo, devi essere legato alla natura del tuo brand. Ma dovremo essere tutti spinti da questo intento positivo di utilizzare quelle piattaforme in modo responsabile e anche di vederle come delle opportunità per far delle cose positive per il mondo.

PF: Io faccio sempre questo gioco con i miei studenti. Non insegno materie legate al marketing, legate alla strategia, ma scenari socioculturali, tendenze socioculturali, per cui ho anche la possibilità di farlo più facilmente anche rispetto a quello che può essere il tuo quotidiano. Io dico sempre: “facciamo questo gioco, proviamo invece di fare una strategia per consumatori, facciamo una strategia per collezionisti. Invece di considerare le persone che consumano, rovinano, distruggono le cose, pensate semplicemente a preparare qualsiasi cosa voi stiate facendo per persone che amano le vostre cose, esattamente come un collezionista ama una figurina, che è la cosa più importante del mondo”. E lì cambia tutto.

MP: Nel libro cito un altro esempio di un’azienda potentissima in America. Io vivevo a Minneapolis in Minnesota per 3M e c’era Target, che è uno dei più grandi supermercati, distributori, retailer in America. Loro chiamano i consumatori “guest”, sono i tuoi ospiti. Pensa lo shift che c’è. Tu immagina, adesso la stessa cosa che hai fatto tu, tu immagina dire ai tuoi studenti “ok, invitate a casa qualcuno a consumare tutto quello che avete”, oppure “invitate qualcuno e lo chiamate ospite”. Cioè pensa ai market e dici “no, adesso io ti do l’esperienza migliore che posso dare perché tu sei mio ospite da Target, anziché tu sei qui a consumare, a comprare, io ti devo vendere il più possibile”. Le parole sono potenti.

PF: Come ti aggiorni? Come resti aggiornato su quello che succede fuori dall’azienda?

MP: In tanti modi. Il driver che connette tutte le cose che faccio è la curiosità, curiosità insaziabile e poi si manifesta leggere libri, viaggiare. Io viaggio tantissimo per lavoro, ma non vado in un posto e mi chiudo nella stanza d’hotel e poi nella meeting room dell’azienda dove ci incontriamo, devo sempre uscire. E quando inizio a conoscere la città trovo il modo di andare fuori dalla città, di esplorare, sempre.

Poi mi circondo di persone super interessanti, di grandi innovatori e mi sforzo, anche se sono stanco, anche se ho mille impegni, a incontrarli. Incontrarli per un drink, incontrarli per una cena, in ogni settore. Per esempio, siamo in Italia e adesso cito delle celebrity perché sono note, ma ce ne sono mille che non sono celebrity. Però uno come Jovanotti, uno come Fabio Volo, Fabio Novembre nel nostro mondo del design, quindi tre grandi amici, sono molto vicini a me, in mondi molto diversi l’uno dall’altro, sono uno stimolo pazzesco. Mi raccontano quello che fanno, come pensano e io torno a casa e dico “ok, devo far di più, devo far di più, devo far di più”. Adesso ho citato quelli famosi, ma non devono essere famosi, gente che ha questo drive dentro, che deve innovare, continuare ad avere progetti, che vivono di progetti, l’hai detto tu all’inizio di questo podcast.

PF: Una cosa che ti fa dire quando sei di fronte a una proposta “questo progetto va fatto assolutamente”

MP: Spinoza, il filosofo Spinoza, differenziava l’intelletto (o l’intuizione, dipende dai testi che si leggono) dalla ragione o la ragione discorsiva. La ragione discorsiva è quando tu metti insieme tutta una serie di dati e pezzo dopo pezzo arrivi a quella conclusione. L’intelletto o l’intuizione è quando salti direttamente alla conclusione. Quindi potrei dire “ah, vedo una cosa, di intuizione capisco se questa cosa è giusta o no”, poi ovviamente devo fare un sacco di altre cose per validare quell’intuizione, però ce l’ho l’intuizione, no Però poi Spinoza spiega che cos’è l’intuizione. Lui dice “non è altro che un modo di ragionare iperaccelerato”. Cioè tu stai ancora facendo il ragionamento della ragione discorsiva, ma non te ne rendi neanche conto perché avviene in una frazione di secondo nella tua testa. Allora lì capisci che per far quel tipo di ragionamento a quella velocità che chiamiamo intuizione devi comunque passare la tua vita a collezionare esperienze, nozioni, la cultura di cui parlavano i miei genitori, imparare, imparare, imparare con grande curiosità e tu accumuli tutto. È un database intuitivo, non te ne rendi neanche conto, ma tutto quel database ti darà la possibilità di prendere decisioni veloci, immediate.

Per esempio, è un po’ estrema come dichiarazione perché non è sempre necessario, però il più delle volte per una posizione come la mia di Chief Design Officer l’ideale è che venga ricoperta da un designer. Perché il designer all’inizio di quel percorso si è sporcato le mani, ha fatto mille errori e ha progettato. Quando ti ritrovi davanti a un progetto, in modo intuitivo sai già tutta una serie di cose attraverso le quali il progettista e il progetto stesso sono passati. Quello è un esempio.cPoi ovviamente in quel contesto ti servono nozioni in tre campi, che sono i campi del design thinking. Devi capire di tecnologia e tutto il manufacturing, devi capire di business e devi capire di esseri umani, società e trend. I tre filtri del design thinking. E poi devi capire la complessità di come sperimentare, creare, eccetera, eccetera.

Quindi la mia risposta, molto lunga la tua domanda, è un po’ intuizione, ma un’intuizione informata da tanto duro lavoro e anni di esperienza. E poi comunque anche la mia intenzione ovviamente non è necessaria. Quindi quando inizio a capire che qualcosa potrebbe andar bene, inizio a parlare con un sacco di persone nel business, fuori dal business, designer, non designer, e inizio a validare la mia intuizione e spesso mi sono sbagliato. E quindi cambio direzione e va benissimo così. Però devi avere anche il coraggio di averle queste intuizioni. In americano c’è una frase “analysis paralysis”, paralizzato dall’analisi. Quando non sei mai sicuro di nulla e dati su dati su dati su dati, alla fine non fai nulla.

PF: Mauro è arrivato il momento della raffica.

MP: Vai. Menomale che hai una risposta o l’altra. Quando mi fanno le raffiche a domanda aperta sono in crisi pazzesca.

PF: Qui c’è la possibilità. Sono dieci domande a sorpresa, solo risposte secche, hai però due jolly: una possibilità di passare se proprio sei in difficoltà o una possibilità di argomentare. Per cui, vamos.

Ti regalano un viaggio a tua scelta. Vai alla scoperta di qualcosa di nuovo o alla riscoperta di qualcosa che conosci?

MP: Alla scoperta di qualcosa di nuovo.

PF: In casa: Design spontaneo o design d’autore?

MP: Spontaneo.

PF: Al lavoro: Sneaker o mocassini?

MP: Eh, li uso tutte e due. Sneaker più recentemente perché mia moglie lavora per Golden Goose e quindi rappresento il brand.

PF: Va bene, va bene. Hai argomentato. Ti sei giocato l’argomentazione.

MP: Porca miseria! In modo stupido.

PF: Per vivere in città: penthouse o townhouse?

MP: Penthouse.

PF: Il tuo ambiente ideale, brutalista o minimalista?

MP: Orca miseria!

PF: Puoi saltare.

MP: No, no. Se salto questa chissà cosa mi chiedi dopo! Minimalista.

PF: Sulla tavola, tovaglia o tovagliette?

MP: Tovagliette.

PF: Visita a una mostra, scegli Warhol o Basquiat?

MP: Warhol.

PF: Con gli amici, prosecco o champagne?

MP: Prosecco.

PF: Prima di dormire, libro o schermo?

MP: Libro.

PF: Il tuo futuro in città o in campagna?

MP: Campagna.

PF: Ah, proprio secca così.

MP: Adesso non posso più argomentare, sennò ti racconterei, perché sono nel mezzo di questa cosa.

PF: Lo so, lo so.

MP: Te l’avevo detto?

PF: No.

MP: Ma proprio nel mezzo, proprio nel mezzo, al punto che ho parlato con un commercialista due giorni fa per capire le implicazioni. La città ci sarà sempre nella mia vita, però [voglio] una base nella natura per i miei figli.

PF: Si capisce dal tuo Instagram, si capisce da quello che scrivi, che insomma la tensione verso la campagna è forte. Basta, finita la raffica.

MP: Quindi non ho usato il pass0.

PF: Non hai usato il passo.

MP: Avrei potuto sul minimalista e brutalista. A me piace proprio… sono molto decorativo, quindi avrei potuto fare pass lì. Però temevo quelle successive. Invece sei stato bravo.

PF: Invece sei stato strategico, te le sei giocate benissimo, bravo, bravo. Mauro, la domanda finale del podcast. Qual è un libro per te importante che dovremmo leggere anche noi?

MP: Io amo le biografie, però strutturate, scritte in un modo specifico. Per esempio, quelle di Walter Isaacson sono stupende e quindi se devo sceglierne una è quella di Steve Jobs, però tutte quelle che ha scritto lui sono molto belle.

E poi mi sono piaciute molto le due [biografie] di Richard Branson e vorrei citare proprio quelle, perché in realtà se devo scegliere una direi quelle di Richard Branson. Quindi “Losing my virginity” e “Finding my virginity”. Perché Richard è un grande innovatore che è partito sempre – quando ha fatto innovazione – da un’esigenza reale delle persone, che nella maggior parte dei casi erano la sua esigenza personale. Mi arriva un bill del telefono, del cellulare altissimo, non esiste, mi creo la mia azienda di telefonia. E il treno sempre in ritardo, mi creo la mia azienda. Ovviamente quando aveva la possibilità di farlo, ma il punto è che partiva da un’esigenza reale, non partiva da “come faccio i soldi, dove vedo delle opportunità”. Parti da un bisogno umano. Ma la cosa più bella, prima di tutto, è che poi le ha costruite divertendosi, quando si parla di amare quello che fai. Quindi c’è la dimensione di amore per le persone che servi e l’amore per quello che fai. Queste due dimensioni. E creando poi dei brand che non sono troppo seriosi, delle aziende anche quando si va in finanza, comunque hanno sempre quella dimensione emotiva e quella dimensione più razionale.

Ma la cosa più bella in assoluto, che esce molto dal secondo libro, dalla seconda biografia, è che ha trovato poi un purpose più alto delle proprie aziende. Dalle sue cause sociali a quando ha creato questo circolo degli anziani (penso, io l’ho letto in inglese) “the circle of the elderlies”. In questo “circolo degli anziani” ha convinto Mandela a essere capo di questo circolo per cercare di fare quello che le Nazioni Unite non stavano facendo, di impedire guerre. Quando ha cercato di stoppare, cioè questo è l’imprenditore, ha cercato di bloccare la guerra in Iraq, mandando Mandela col suo jet privato, lì prima che arrivassero gli americani, poi gli americani hanno attaccato un giorno prima di quello che dovevano fare, poi è saltato tutto quindi Mandela poi non è andato. Però con i soldi che hai, hai la tua isola ai Caraibi, potresti goderti la vita e basta; invece, [decidi di] impegnarti socialmente sulle tre famose dimensioni della felicità: investire su te stesso, sugli altri, su qualcosa più grande di te. È quel “power of people in love with people”, l’amore per le persone che servi, per quello che fai e per chi ti circonda.

PF: Grazie Mauro.

MP: Grazie a te.

 

 

Puntata registrata a Milano il 3 giugno 2024 e pubblicata il 15 luglio 2024.

La trascrizione è stata effettuata utilizzando strumenti di intelligenza artificiale e successivamente editata dall’autore.

 

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