In questa puntata live di Parola Progetto, abbiamo il piacere di ospitare Chiara Pellicano e Edoardo Giammarioli, fondatori di Millim Studio, una realtà creativa che si distingue nel panorama del design per l’uso innovativo dei materiali (anche di recupero) e per una personalissima visione della manifattura.
Tra prodotti, consulenza creativa e direzione artistica, Millim Studio rappresenta l’essenza di un design che guarda al futuro con la testa e con le mani, dove pensare e fare si parlano di continuo.
Nella conversazione, Chiara e Edoardo condividono il loro approccio al progetto, le sfide e i vantaggi del creare in coppia, la passione per l’insegnamento, il loro punto di vista sul ruolo di Roma nel panorama internazionale del design.
Buon ascolto!
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PF: Sono Paolo Ferrarini e questo è Parola Progetto. Parola Progetto è un podcast di dialoghi con persone che vivono di progetti dove si racconta il design in tutte le sue forme, senza oggetti e immagini, solo attraverso la parola.
Ed eccoci qua.
Il design è una questione di fare e di pensare. I nostri ospiti di oggi fanno bene entrambe le cose. Chiara Pellicano e Edoardo Giammarioli sono Millim Studio, realtà romana che dal 2016 crea oggetti, si occupa di consulenza creativa e si dedica alla direzione artistica. Al centro della loro poetica troviamo un rapporto profondo con i materiali di recupero, con il lavoro manuale, scelte che rivelano una profonda e genuina passione per i materiali, qualsiasi essi siano. I loro progetti sono stati visti in tutti i grandi eventi di design in Italia, ma anche a Hong Kong, in Messico, in Belgio e presto anche negli Stati Uniti. Tra i riconoscimenti di Millim Studio ricordiamo un Wallpaper Design Award nel 2019 e la presenza tra i 20 talenti che dovresti conoscere di AD Germania nel 2024. Con loro parleremo di idee, di manifattura, ma anche di fabbriche e di laboratori, alla scoperta di un possibile futuro per il design.
Ciao Chiara, ciao Edoardo, benvenuti a Parola Progetto.
CP: Ciao Paolo, grazie dell’invito.
EG: Grazie Paolo.
PF: Benvenuti a voi e ovviamente benvenuto pubblico ancora una volta, per la terza volta, Parola Progetto è live da Roma. Applaudiamoci e facciamoci sentire. Bene, ma a me questa cosa del pubblico mi piace da matti, è molto più bello dello studio, decisamente.
Allora Chiara, ma come sei arrivata al design? Perché fai la designer?
CP: Bella domanda. Ti direi che probabilmente ha inizio e ha radici molto nel passato, probabilmente dall’influenza che ha avuto mia madre su di me. Era maestra montessoriana, quindi fin da piccola i miei giochi erano laboratori. Fin da subito sono stata abituata a lavorare per associazioni, quindi tutto era in costruzione, sempre. Quindi direi che probabilmente già da lì è nata la prima scintilla di design, ma ancora non lo sapevo.
PF: Non sapevi che si chiamava design ma lo facevi già.
CP: Esatto.
PF: Invece per te Edoardo? Come sei arrivato a questo strano mondo che ci piace tanto?
EG: Ho sempre avuto realmente un’attrazione per gli oggetti e anche per come sono fatti, quindi toccarli, aprirli, smontarli e l’ho più o meno sempre fatto. Poi ho capito che poteva diventare un lavoro quando ho iniziato a adottare delle pratiche che adesso sono diventate nostre, ma che abbiamo dovuto – ho dovuto in primis e poi abbiamo dovuto – faticare per far diventare una pratica. Parte da lontano, ma poi ho capito che volevo fare il designer per più tempo possibile. L’ho capito strada facendo.
PF: E tu Chiara hai un primo ricordo di design? Ci hai parlato di una passione, di una storia che in un certo qual modo parte fin dall’infanzia. Riesci a ricordare il primo ricordo di design?
CP: Un libro: “Da cosa nasce cosa“ di [Bruno] Munari, la profondità e la leggerezza con la quale riusciva a raccontare cosa significava progettare. Parlo del primo ricordo perché mi ricordo effettivamente anche il momento in cui io l’ho aperto per la prima volta. Mi trovavo sul terrazzo di casa dei miei, leggevo questo libro, non sapevo niente di design; eppure, mi ha sconvolto in un certo senso perché è riuscito a toccare delle corde, anche per chi effettivamente è digiuno di design. Forse questo è il primo ricordo, il libro.
PF: Per te invece Edoardo, il primo ricordo di design?
EG: L’ho chiamato design a posteriori. Intorno alle medie, quindi in età adolescenziale, preadolescscienziale, ero un customizzatore compulsivo, mettiamola così. Aggredivo qualsiasi tipo di superficie, qualsiasi tipo di oggetto. Nella mia testa di allora era un intervento migliorativo. Non lo era, però la cosa divertente è stata che realmente li aggredivo, li smontavo, li rimontavo, facevo dei Frankenstein. Quindi ad oggi potrei dire che quello è stato il mio primo intervento, il mio primo ricordo di design. Al tempo era un pastrocchio, manifatturiero.
PF: Ma hai ancora qualcuno di questi pastrocchi?
EG: Forse ho una spada di legno. Da qualche parte in cantina dei miei ci dovrebbe essere una spada di legno fatta con mio padre, perché mi sembra di averla vista di recente.
CP: Ma io mi ricordo anche di una scrivania pimpatissima.
EG: Sì, confermo. Aveva robe, aveva luci, aveva delle altezze regolabili, era un pastrocchio. Fintamente interventi migliorativi, ma ripeto, non lo erano assolutamente.
PF: Mentre parlavi mi è venuto in mente “Poor Things“, mi sono venute in mente quelle dimensioni di unioni strane di cose che forse hanno senso, forse no.
EG: Forse no!
PF: A proposito di fare, disfare e rifare, il primo vostro progetto che ho visto dal vivo, di persona era Cutout, una serie che avete presentato anche a Edit a Napoli, proprio quando l’ho visto la prima volta. [Si tratta di] una serie di oggetti in metallo in cui lo scarto produttivo viene nobilitato, viene lavorato e diventa un nuovo oggetto. Quindi siete partiti dallo scarto per poi avere qualcosa di nuovo e di prezioso. È uno dei vostri lavori probabilmente più noti ed è quello che meglio, secondo me, esprime anche il punto di vista di Millim sul design. Raccontateci un po’ questo progetto, come è nato, come si è sviluppato. Vorrei sapere un po’ di backstage di questo progetto.
EG: Lavoravamo con un fornitore, eravamo un giorno in azienda, c’era un angolo degli scarti, delle brutture. Era l’anticamera del cestone delle robe da buttare. In questo Chiara ha una sensibilità particolare, è stata realmente colpita e ha detto “questi pezzi sono bellissimi, guarda queste forme“. La cosa divertente del progetto, per chi non l’avesse mai visto, è che noi abbiamo fatto un lavoro di composing ma non abbiamo disegnato gli oggetti. È uno dei progetti che fa parte del nostro nuovo filone, mettiamola così, in cui non è esistita la matita e [non è esistito] il foglio. Quelle forme sono delle risultanti di disegni di altri progettisti, di altri progetti, di altri universi. Chissà dove sta il pieno di quel vuoto.
PF: Parliamo di ritagli di lavorazioni metalliche, giusto?
EG: Sì, lavori di carpenteria, quindi sono ritagli di taglio laser. Quindi sostanzialmente il primo step è stato [dire] “guai chi tocca queste forme“, proprio per raccontarti il dietro le quinte. C’è stato un altolà a gran voce, quindi “guai a chi tocca queste forme”. Le iniziamo a catalogare e [a dire] “tutti i prossimi sfridi li mettete accanto a queste e quando torniamo cataloghiamo anche loro“. Una volta raggiunto un numero sufficiente di forme le abbiamo composte. Quindi diciamo che il primo input è stato realmente materico. [Con] questi pezzi in mano è come se avessimo saltato la parte di disegno e avessimo già un prototipo. Poi c’è stata la parte di progettazione, quindi dovevamo capire che questi oggetti, nonostante queste forme strane, dovevano comunque rispettare dei requisiti di stabilità, di peso, dimensionali. Quindi c’è stata poi la parte di progetto, che è quello che fa la differenza rispetto a, non so, un hobby, mettiamola così, che ha fatto sì che questi scarti e questo lavoro di composizione diventassero una collezione di arredi.
PF: Quindi parliamo di tavoli, tavolini?
EG: Parliamo di tavoli, tavolini e di vasi.
PF: Si tratta di pezzi unici o di una produzione?
EG: Volendo è una produzione. Chiaro, se mi arriva un ordine di mille pezzi non li posso fare con quel tipo di logica. Invece, su un numero di pezzi che non è limitato a dieci ma magari arriva a cinquanta, posso coprire una produzione senza dover andare a cambiare il pezzo di forma. Sostanzialmente potrei anche arrivare a un numero più elevato [se] sostituisco una lastra con un’altra lastra. Cambia la forma, però diciamo che il concetto può rimanere lo stesso e anche la funzione dell’oggetto, perché basta che trovi un altro scarto che arriva all’altezza giusta della gamba e quel progetto può continuare a vivere. Però diciamo che non è limitato al pezzo unico, ma a una piccola serie.
PF: Proprio perché avete catalogato anche lo scarto, per cui avete fatto un lavoro di razionalizzazione dello scarto di produzione.
CP: Esatto. Poi ovviamente dipende tantissimo dal luogo in cui vai a reperire la materia di scarto. In questo caso è stato interessante perché è un’azienda che, lavorando in un determinato settore, ha un rinnovo di quello stesso scarto prodotto in N copie; quindi, noi riusciamo ad avere un numero uguale di pezzi che ci permettono di poter fare sempre la stessa cosa. A meno che non facciano una cosa su misura, ad hoc. In quel caso noi sappiamo che potremo realizzare un Cutout che è un pezzo unico.
PF: Entrambi siete prof. Chiara, docente di comunicazione visiva presso l’Accademia Costume Moda di Roma (dove tra l’altro siamo colleghi), mentre Edoardo è docente di design sostenibile presso l’Accademia Belle Arti Perugia 1573. Quanto è importante per voi la docenza? È solo un momento di riflessione o un momento di scambio? Qual è il ruolo dell’insegnare nel vostro flusso di lavoro?
CP: Vorrei partire con una citazione che tra l’altro mi disse Edoardo quando iniziai a insegnare. Avevo paurissima, ero agitatissima, soprattutto perché iniziai con un corso di alta formazione, [gli studenti] erano più grandi di me. Quindi io ho iniziato a 25 anni e lui mi disse una cosa bellissima, me la porto sempre: “guarda che il docente è pagato per imparare“. Io all’inizio non capivo. Io devo insegnare, non devo imparare, e invece è così. Forse la cosa che mi porto più dentro e che mi stimola è che con la docenza devi essere sempre aggiornato, ma non solo sulla tua materia, ma anche sull’interlocutore, sulle nuove generazioni, sul modo che hanno di approcciare al design, che non è lo stesso che abbiamo studiato noi, nel bene o nel male. Quindi ti direi che è fondamentale perché permette anche allo studio, a Millim Studio, di restare sempre sul pezzo, sempre costantemente in linea con quelle che possono essere anche nuove tendenze e un po’ anche gli interessi nuovi dei più giovani.
EG: Condivido il pensiero perché, comunque, anche solo per preparare tutto sei costretto a dover organizzare e razionalizzare il tuo metodo progettuale per poterlo restituire. E questa è stata la prima cosa che mi ha segnato, perché per doverla mettere in bella ho dovuto analizzare i miei processi e quindi ho trovato anche delle chiavi ricorrenti o dei trick che uso io, che però non erano stati codificati. L’altra cosa che per me è fondamentale, che ho trovato in Accademia Belle Arti (il motivo per cui ho detto sì quando la coordinatrice, Elisabetta Furin, professoressa bravissima e professionista bravissima, mi ha invitato per questo nuovo corso di design sostenibile) è stato che hanno una chiara visione di cosa sono e dove vogliono andare, che non è banale per niente. Soprattutto hanno contezza di essere un’accademia di belle arti, quindi [sanno] approcciare il design, soprattutto sostenibile, ma non alla maniera di un politecnico. È più una sostenibilità se vuoi concettuale, una sostenibilità di rapporto con chi realizza le cose, una sostenibilità di territorio, una sostenibilità di materia. C’è dentro tanto di artistico piuttosto che di tecnico. E in più c’è stata libertà di espandere la ricerca del docente, quindi non partendo dal metodo progettuale standard, ma proseguendo la ricerca del professionista per portarla ai ragazzi, che poi è quella cosa per cui siamo chiamati: far uscire degli esseri pensanti che progettano seguendo un pensiero.
PF: L’ultima cosa che avete imparato da dei vostri studenti?
CP: A usare TikTok.
PF: Tanta roba!
CP: Non è banale perché noi siamo gli instagrammer in questo momento, ma ci siamo accorti che la generazione che sta a scuola non segue per niente gli instagrammer, addirittura non hanno Instagram molto spesso, e c’è tutto questo altro mondo virtuale.
PF: Edoardo invece?
EG: Mi ha colpito una ragazza a cui avevo chiesto dei prototipi in scala reale. Voglio che lavorino con la scala corretta del progetto, insomma cose che non stiamo qui troppo ad indagare. Pur di arrivare pronta col prototipo in scala ha fatto un impiastro, ha incollato delle robe, delle lastre una sopra l’altra. Mi ha colpito perché un altro avrebbe detto “ah no, non ho reperito sta roba“ e invece [ho trovato] quella freschezza, quella voglia di arrivare comunque pronti per ricevere il feedback da chi poi te lo deve dare, quindi mi ha colpito.
PF: Cosa vuol dire Millim?
EG: In senso letterale?
PF: È un palindromo…
EG: Si è un palindromo, Millim è un gioco di parole che ci siamo inventati ormai troppi anni fa, che vecchiaia.
CP: Eravamo giovani!
EG: È un gioco che carica tutto sul doppio e sulla visione doppia, motivo per cui anche è palindromo. Banalmente sono le doppie dei nostri cognomi, quindi Giammarioli (le due M) e Pellicano (le due L) e le I sono in comune. Quindi viene Millim. E poi c’è il giochino che è palindromo.
CP: Però non lo raccontiamo mai, quindi hai l’esclusiva.
PF: Chiara, una domanda per te. Si nota la vostra presenza in molti eventi e [in molta] stampa all’estero, soprattutto negli ultimi tempi. Nei prossimi mesi esporrete anche a New York all’ICFF e a Copenaghen a Three Days of Design. Ovviamente avete esposto tantissimo qui a Roma, ma anche a Milano, a Napoli per Edit che abbiamo già citato, a Venezia per la Design Biennale, a Como per il Lake Come Design festival. In tutti i festival più importanti degli ultimi anni voi c’eravate sempre. È una mia impressione o il vostro messaggio è più accettato oltre confine? O mi sbaglio? Dimmi che mi sbaglio.
CP: Non ci siamo mai posti questa domanda. Noi abbiamo un motto interno che ci diciamo sempre, anche nel come ci comunichiamo, come devono comunicare i nostri pezzi ma anche noi come entità, come studio, che è “doing local to be global“ e noi teniamo tantissimo al fatto che possiamo in qualche modo condurre un racconto sul nostro territorio ma che possa avere un linguaggio internazionale. Io credo che quello che dici tu probabilmente sia solo legato al fatto che è una questione di linguaggi culturali, di come ci si racconta. L’Italia ha una storia del design, una cultura, un heritage. Probabilmente noi tocchiamo delle corde che sono un po’ più internazionali o comunque nordeuropee. Però adesso, prossimamente usciranno nuove belle collaborazioni italiane.
PF: Bene, molto bene, questo mi consola.
EG: Ma posso dire che va stra bene così? Ma sai perché te lo dico? È curiosa come cosa. Siamo un popolo di esterofili per natura, quindi va super bene, nel senso che se funziona fuori, quando torno qua funziona il doppio. È come quello che ti dice “lui ha studiato a Copenaghen“ e non è che chi ha studiato a Copenaghen è meglio chi ha studiato a Torino, a Napoli o a Bologna: è la stessa roba. Però a noi piace. Se ho fatto una mostra, la stessa identica, a Hong Kong o a Napoli o a Roma, [dicono] “eh, hanno fatto una mostra a Hong Kong”. È una questione di come leggi il messaggio, quindi secondo me ha più risonanza il fatto che abbiamo fatto di più all’estero, ma è una questione di dove mettiamo l’attenzione.
CP: Quindi ti sbagli? Ni.
PF: A proposito dell’uso che fate dei materiali, di recente ho visto questo documentario bellissimo. Si chiama “Alfabeto Mangiarotti“, prodotto da Agape, in cui si vede come un maestro assoluto come Angelo Mangiarotti puntasse a far esprimere allo stesso modo persone e materiali, con una grande attenzione alla manifattura. Ho visto molte similitudini con il vostro lavoro, in particolare con una cosa che avete presentato molto di recente a Roma che è Metallique, dove avete realizzato degli oggetti utilizzando solo esclusivamente l’alluminio. Ad esempio, una cosa che, ho scoperto, faceva Mangiarotti, che non sapevo, è che nell’elenco dei materiali dei suoi prodotti metteva anche la colla. Perché lui tendeva al monomateriale, ma quando proprio non era possibile fare il monomateriale, diceva che c’è la colla, [perché] la colla è un materiale. Ad esempio, Metallique è tutto puro monomateriale. Questa volta però me lo deve raccontare Edoardo, perché so che ci ha lavorato tanto, anche fisicamente, proprio con un lavoro di tornio.
EG: Metallique è l’ultima creatura. È stravero che la materia ti suggerisce che cosa devi fare con lei. Quindi andare a trovare delle perversioni progettuali per aggredire una materia, perché tu hai pensato una roba e ce la devi incastrare per forza, no. Esistono, perché nel mondo esiste tutto, ma diciamo che la materia tende a suggerirti come trattarla. Ancora di più in alcune delle nostre collezioni che realizziamo noi, perché su alcuni progetti lavoriamo così e su altri abbiamo degli approcci differenti. Ad esempio, Metallique è una collezione nata con un’idea [perché] da un punto di vista progettuale esisteva il progetto: deve essere con i cilindri di questa dimensione, il linguaggio deve essere questo, il sistema è espandibile in N pezzi, deve essere monomaterico, non ci devono essere incollaggi e cose che inibiscano il ciclo di vita della materia. È stato costruito con i criteri di eco design che non è una leggenda metropolitana, sono stabiliti dall’Unione Europea, devi rispettare dei criteri. È stato costruito, è stato progettato con quei criteri. Sulla parte decorativa c’era una traccia, non c’era un disegno. Siamo intervenuti sulla materia da un punto di vista istintivo. Il bello della tornitura sull’alluminio è che tu prendi questo tubo grezzo che non è neanche così rettificato. Lo vedi che assomiglia a un cilindro pulito, ma poi se lo vedi bene pulito non è. [Quando] passa la punta del tornio, alla prima girata della punta del tornio lui si illumina, lui si accende, diventa bello come lo vedi finito in un negozio, [come] un pezzo già fatto. La traccia era questa, cioè partire da una roba grezza e andare a lavorare sul decorativo, sempre alla Millim maniera, quanto più asciutto possibile. Comunque abbiamo lavorato in maniera decorativa, ma le rientranze che vedete e il diametro di questi fori non sono progettati: sono istintivi, miei, perché questi pezzi li ho fatti fisicamente io a mano. Quindi c’era una traccia, dovevano essere dei cilindri mossi, poi li ho mossi a gusto mio lì per lì. Altra cosa che ci piaceva, motivo per cui abbiamo scelto l’alluminio, è che non lo devi trattare, cosa che comunque tendiamo a non fare quasi mai. Ci piace la materia nuda e ci piace mostrarla così com’è; quindi, realmente esce lui, così, senza doverlo portare in galvanica, senza doverlo verniciare, senza dovergli fare nessun tipo di ulteriore lavorazione, di ulteriore finitura. Quindi, tornando a monte, ce l’ha un po’ suggerito lui quello che dovevamo fare con questo cilindro.
PF: Chiara, ma veramente li hai fatti fare tutti a Edoardo i pezzi?
CP: I cilindri sì, tutti. Mi tornava tutto argentato a casa.
EG: Ah sì, sembravo una fatina dei boschi!
CP: Ti voglio raccontare un aneddoto bellissimo di Metallique.
EG: Faccio io perché l’ho vissuto, poi questo lo tagli perché veramente è una roba…
PF: Chi lo sa se lo taglio…
EG: Succede che in studio un giorno mi faccio male a una mano per fare un prototipo, perché succede anche questo, quando lavori sulle robe ti può scappare che ti fai male. Mi faccio malissimo a questa mano e devo andarmi a fare la radiografia. Venivo da studio, quindi un giorno in cui ero vestito bene, cappotto lungo, poi lo sai che porto questi cappotti. Esco da studio e vado diretto in ospedale, borsa di pelle, proprio da progettista. Mi danno il form da compilare, quindi [con domande come] hai il pacemaker, hai delle placche, hai delle robe. A un certo punto c’è la domanda “carrozziere o tornitore“ nelle professioni. E io stavo così. “Non rischio” dico “io la spuntina su tornitore la metto“. Arriva l’infermiera, prende la cartella la guarda, alza gli occhi e mi fa “tu fai il tornitore?“. E quindi mi hanno screennato tutto per vedere che non avessi schegge, perché comunque per la risonanza è un problema. Però mi ha fatto davvero ridere perché non se l’aspettava il tornitore.
PF: Tu vorresti tantissimo avere “tornitore“ sulla carta di identità. Altro che designer!
EG: Farebbe a differenza!
CP: Insieme a marmista.
PF: A seconda dei progetti.
CP: Però io raccoglievo tutti i trucioli d’alluminio.
PF: Li avete anche poi esposti accanto ai prodotti.
CP: Sì, abbiamo mantenuto la rimanenza di ogni oggetto accanto al prodotto in allestimento.
PF: Ci sono tante coppie nel design. Coppie nella vita come nel vostro caso, ma anche coppie di amici, colleghi o comunque persone che fanno lavorare due cervelli all’unisono. Si lavora meglio in due o lavora anche da soli?
CP: Lo sai che non ho mai lavorato per me da sola? Quindi non te lo saprei dire. Io ho sempre lavorato per una mia realtà con lui. Ti posso dire come mi trovo a lavorare con Edoardo da quando abbiamo fatto dei lavori, prima di avviare la Millim, la nostra realtà. Ma anche prima di Millim noi abbiamo lavorato insieme. Quindi non saprei dirti se è un valore rispetto a lavorare da soli. Sicuramente si porta dietro tanti pro e tanti contro. È un bellissimo e spaventosissimo equilibrio tra vita privata e vita lavorativa, dove bisogna saper mettere uno stop e un limite. Però ce la caviamo. Ti posso dire che cosa rappresenta per me avere una seconda figura. Probabilmente per me è fondamentale, nel senso che mi rendo conto che arrivo fino a un certo punto a fare determinate cose, ma la mente, la persona di Edoardo mi aiuta a implementare in maniera più efficiente quelle che sono anche i miei difetti o le mie carenze.
EG: Secondo me arrivati a questo punto, nel senso di carriera, insomma sono un sacco di anni, Millim è del 2016, quindi comunque iniziamo ad avere anche uno storico nostro. Abbiamo faticato per trovare l’equilibrio che abbiamo ora, perché su alcune cose, siamo ancora sovrapponibili. Abbiamo imparato a lasciare andare uno piuttosto che l’altro, perché magari è più skillato su una roba, perché gli riesce meglio per 100.000 ragioni nostre. Già per esempio ridurre le sovrapposizioni, che sono naturali perché siamo colleghi e sostanzialmente facciamo lo stesso lavoro, quello è stato secondo me il passaggio più critico. Poi chiaramente hai tutti i vantaggi del caso, pareri, scambio, opinioni. Poi Chiara (e qui facciamo una roba pubblica, una dichiarazione pazzesca), Chiara è una fonte inesauribile. Chiara è proprio l’acqua che sgorga dalla sorgente, cioè lei mette continuamente energia pulita. Seppure schiacciata da 100.000 progetti, vede comunque la roba positiva, ti dà comunque quello sprint che serve. Io invece sono un rompipalle, borbotto, faccio. Invece no, Chiara in questo mi aiuta tanto. Io avrei lasciato questo lavoro anni fa, se non fosse stato per Chiara. Per intenderci, su questo – almeno per me – lei è fondamentale, non solo da un punto di vista professionale, però diciamo che da un punto di vista prettamente egoistico mi aiuta.
PF: Domanda secca, qual è il ruolo di Roma nel design contemporaneo secondo voi?
CP: Rispondi tu.
EG: Non lo so Paolo, non lo so, ma ti dico una cosa: non me lo sono mai posto il problema e brutalmente non mi interessa. Posso dirti la relazione che abbiamo noi con il nostro territorio. Ciclicamente negli anni ci è stato posto questo discorso di Roma, ma è sempre poi in contrapposizione con le note mete del turismo del design. Non ce ne può fregare di meno, proprio lo zero assoluto. Ed è neanche un discorso…
PF: C’è un pubblico rumoroso.
EG: Proprio non ci interessa, lo bypassiamo proprio il pensiero, ma perché? Perché Roma è piena di progettisti bravissimi, fenomenali. Manca sempre il sistema, però questo discorso mi ha stufato anche solo a sentirlo. Pensa a voi che lo raccontate! Proprio non mi interessa. Faccio il mio, cerco di farlo al meglio delle mie possibilità e poi chi rimane indietro rimane indietro, c’è chi corre e chi scappa.
CP: Roma deve anche imparare a essere Roma, a non mettersi mai nella condizione di doversi guardare e comparare ad altre città. Roma deve vivere di quello che ha e renderlo fruibile. Tornando alla prima domanda, “doing local, to be global”.
PF: Chiara, il tuo sogno più grande?
CP: È un sogno con me stessa, in realtà, per me stessa, un desiderio a cui ambisco da sempre e ho difficoltà, mi rendo conto, a realizzare: lasciarmi andare di più. Soprattutto da un punto di vista di rapporto che io ho anche con le persone, nel senso che (non lo so se è un pregio o un difetto) non mi sento mai superiore agli altri. E forse, in realtà, mi sono resa conto nel tempo che è un umilissimo modo per poi essere studiare sempre, costantemente, cercare di approfondire. Però ambisco a cercare di sentirmi un po’ più libera da questo punto di vista. Questo è il mio grande sogno, con me stessa.
PF: Edoardo, la cosa che ti fa arrabbiare di più?
EG: Quanto tempo avete? Io ho un sacco di roba [che mi fa arrabbiare]. Entra nello specifico perché posso darti una lista lunghissima su tantissimi temi.
PF: Pensando ai tuoi colleghi designer, la cosa che ti fa arrabbiare di più?
EG: Le cose fatte male in assoluto, le cose fatte male mi fanno andare in bestia. Vi assicuro, è pieno di cose fatte male, ma fatte proprio male. Non solo pensate male, che tu dici “pensate male, però poi sono fatte bene“, è pieno di roba fatta male. Che la vedi proprio e dici “non ti salva niente, non ti salva il concept, non ti salva il racconto, non ti salva lo shooting“, è fatto male. E quella roba lì per me è troppo forte. Hai presente quella roba che ti viene e ti prude? Perché non riesci neanche a girarti, la guardi proprio perché è brutta e non ti stacchi da quella roba là, è pieno di roba così. Ma è una perversione tutta mia, me ne rendo conto.
CP: Vedi come siamo diversi!
PF: È fantastico! Ragazzi è arrivato il momento della raffica, che questa volta, visto che siete in due, sarà una raffica diversa dal solito: sarà una raffica doppia. Per cui adesso Edoardo, tu vai fuori, esci e poi ti richiamiamo noi quando è il momento. Prima la facciamo con Chiara. Stile gioco delle coppie. Le stesse identiche domande e poi le facciamo anche a te. E non saprai mai le risposte. Ovvio, tu le risposte le saprai quando verrà pubblicata la puntata. Eccoci con la raffica. Allora, ricordo agli amici in sala che cosa è la raffica. Ci sono dieci domande secche che loro non conoscono, domande assolutamente a sorpresa. Devono rispondere a tutte le domande e hanno due jolly. Una volta possono passare, una volta possono argomentare.
Partiamo.
Film o serie?
CP: Film.
PF: Marmo o alluminio?
CP: Marmo.
PF: Pasta o pizza?
CP: Pasta.
PF: Superman o Spiderman?
CP: Spiderman.
PF: C’è il pubblico che suggerisce però. Centro benessere o passeggiata in montagna?
CP: Passeggiata in montagna.
PF: Coldplay all’Olimpico o Taylor Swift a San Siro?
CP: Coldplay.
PF: Una cena impossibile: con Gio Ponti o con Achille Castiglioni?
CP: Castiglioni.
PF: Un fine settimana in compagnia di Philippe Stark o Karim Rashid?
CP: Karim.
PF: I vostri oggetti a casa di Kim Kardashian o nello studio di Mattarella?
CP: Passo.
PF: Ultima domanda della raffica. Cinquecento metri quadrati tutti dedicati a Millim. Al Salone o al Fuorisalone?
CP: Al Fuorisalone.
PF: Ok, perfetto, non ti sei neanche giocata l’argomentazione. Grande Chiara, perfetto, grazie. Qualcuno chiama cortesemente l’altra metà dei Millim? Tu puoi restare ad ascoltare.
CP: Posso restare?
PF: Sì, tu puoi restare. La facciamo uscire? Esci Chiara. No, così le [risposte le] scoprite il 15 maggio. Giustamente, bravo, par condicio.
EG: Mi metto al mio posto.
PF: Partiamo con la raffica di Edoardo. Film o serie?
EG: Serie.
PF: Marmo o alluminio?
EG: Alluminio. La novità, sai com’è.
PF: Pasta o pizza?
EG: No, è come mamma o papà. Scegli tra mamma o papà, non si sceglie.
PF: Quindi passi?
EG: Sì, sì.
PF: Ok. Superman o Spiderman?
EG: Spiderman.
PF: Centro benessere o passeggiata in montagna?
EG: Passeggiata in montagna.
PF: Coldplay all’Olimpico o Taylor Swift a San Siro?
EG: Edoardo a casa. No, Coldplay, tra i due Coldplay.
PF: Una cena impossibile: con Gio Ponti o con Achille Castiglioni?
EG: Castiglioni.
PF: Il fine settimana lo passi con Philippe Stark o con Karim Rashid?
EG: Stark.
PF: Ho sentito un po’ di sofferenza. I vostri oggetti a casa di Kim Kardashian o nello studio di Mattarella?
EG: Bello Mattarella! Sì Mattarella.
PF: Ok. Ultima domanda della Raffica. Cinquecento metri quadrati tutti dedicati a Millim, al Salone o al Fuorisalone?
EG: Se devo fare lo sborone lo faccio in grande: in fiera.
PF: Ok, perfetto. Mezza argomentata. Benissimo, grazie Edoardo.
EG: Grazie a te Paolo.
PF: Possiamo chiamare Chiara, così adesso iniziamo con la domanda finale del podcast. Qual è un libro per voi importante che dovremmo leggere anche noi? Potete anche sceglierne una testa nel vostro caso?
CP: “Perché morte non ci separi“ di Barbara Radice, la moglie di Sottsass. Un libro intimissimo e molto bello. Ho pianto.
PF: Come dire, in chiusura di un dialogo a due è bellissimo perché c’è il design ma c’è anche la vita, bellissimo, grazie.
EG: “Futuro del «classico»“ di [Salvatore] Settis. Libro letto e riletto più volte, c’è tanto contenuto dentro e anche parte di quello che facciamo noi come lavoro, quindi lo consiglio.
PF: Che bei titoli. Grazie ragazzi.
CP: Grazie a te.
PF: Grazie di essere stati con noi, grazie anche al pubblico romano.
EG: Grazie.
Puntata registrata a Roma il 11 aprile 2024 e pubblicata il 15 maggio 2024.
La trascrizione è stata effettuata utilizzando strumenti di intelligenza artificiale e successivamente editata dall’autore.
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