Parola Progetto About
STAGIONE 5 — EP. 8

Riccardo Falcinelli: quando la grafica ci fa capire il mondo

05/2023 — 40:43

In questa puntata parliamo di immagini e grafica con Riccardo Falcinelli, uno dei più rilevanti designer grafici italiani.

Oltre a disegnare libri per importanti case editrici (suo l’attuale progetto grafico di Einaudi Stile Libero) è autore di splendidi volumi dedicati al rapporto tra design e percezione visiva, tra cui “Critica portatile al visual design” (2014), “Cromorama” (2017) e “Figure” (2020).

In un accurato percorso tra immagini e significati, Riccardo ci accompagna a scoprire come progettare la comprensione, come non perderci nei musei, facendoci scoprire nel frattempo una singolare sintesi tra Hitchcock e Le Corbusier.

 

I link dell’episodio:

– I libri di Giovanni Lussu.

– Un profilo di Pierluigi Cerri.

– La sigla completa di Lunedfilm di Ferro Piludu con le musiche di Lucio Dalla e Stadio.

– Chi era Robert Massin.

– Il libro di Nelson Goodman “I linguaggi dell’arte”.

– Il libro di Nelson Goodman  “Vedere e costruire il mondo”.

Sono Paolo Ferrarini e questo è Parola Progetto.

Parola Progetto è un podcast di dialoghi con persone che vivono di progetti, dove si racconta il design in tutte le sue forme, senza oggetti e immagini, solo attraverso la parola.

Ed eccoci qua. Oggi parliamo di immagini con Riccardo Falcinelli. Riccardo è certamente uno dei più rilevanti designer grafici italiani, uno che con il suo lavoro ha guidato il nostro sguardo alla scoperta di libri, cataloghi e grafiche editoriali. Fondatore dello studio Falcinelli & Co., ha studiato graphic design al Central Saint Martins College of Art and Design di Londra e letteratura italiana alla Sapienza di Roma. Si dedica all’insegnamento con i corsi di Psicologia della percezione all’ISIA Roma Design. Oltre a occuparsi di libri per importanti autori e case editrici – ne ha disegnati oltre 3000 – è autore di splendidi volumi dedicati al rapporto tra design e percezione visiva, tra cui “Guardare, pensare e progettare. Neuroscienze per il design”, “Fare libri”, “Critica portatile al visual design”, “Cromorama” e “Figure”. I suoi libri sono stati tradotti in 7 lingue in ben 14 paesi. Negli anni ha progettato per aziende e istituzioni quali Disney, Warner Bros., Teatro di Roma, Salone del Libro, Pfizer, FAO, Eni ed è suo l’attuale progetto grafico di Einaudi Stile Libero. Ciao Riccardo, benvenuto a Parola Progetto.

RF: Ciao, grazie di quest’invito. 

PF: Come sai qui a Parola Progetto raccontiamo il design senza usare le immagini. È una sfida che alcuni ospiti trovano un po’ complessa, ma che nel tuo caso sono sicuro ti verrà naturale. Infatti oltre a fare il design, insegni, tieni conferenze, scrivi. In “Cromorama” ad esempio racconti i colori associando aggettivi, descrivendoli, dando loro un’identità. Mi riferisco ad esempio al rosso unito, al nero articolato, al verde illegale, verde aspro, verde vertigine. Riccardo, le parole hanno il potere di cambiare i colori?

RF: Le parole hanno il potere di cambiare il modo con cui vediamo i colori e viceversa, cioè le percezioni visive influenzano il modo con cui noi ci parliamo in testa, è tutto tutto collegato. Noi fondamentalmente quando pensiamo, usiamo una lingua naturale, nel mio caso l’italiano. Quella lingua condiziona il modo con cui io guardo. Ovviamente questo è vero da un punto di vista ampiamente semiotico ma ha anche delle applicazioni pratiche, anche divertenti in ambito commerciale o di marketing. Per esempio c’è una storia che ho sempre trovato divertente. Fino agli anni Ottanta vendere un capo marrone, un golfino marrone era molto difficile finché, leggenda vuole, una commessa lo abbia cominciato a chiamare cioccolato. Nel momento in cui è diventato il maglioncino color cioccolato ha cominciato a vendere.

PF: Oggi la camicia azzurra e i blue jeans sono considerati capi basic. Penso a tutto il modo del tessile, tutto il blu, l’azzurro che c’è. Potremmo dire che sono anche banali e scontati, ma l’abbigliamento azzurro, tu racconti in “Cromorama”, è una conquista recente. Infatti gli abiti azzurri delle madonne rinascimentali erano, come dici tu, un effetto speciale. Ci racconti la storia di questo azzurro costoso? 

RF: Allora, tu giustamente hai detto che oggi il blu è un colore quasi banale, lo è, perché è il più diffuso. Alcuni commentatori lo definiscono una variante del nero ormai, soprattutto nelle versioni navy. Quello che vivendo in un mondo colorato come quello che conosciamo oggi, spesso non si sospetta, è che questa disponibilità di tessuti colorati è recentissima. Recentissima significa che l’industria comincia a tingere i filati di qualsiasi colore a metà Ottocento e il processo si stabilizza negli anni Quaranta del Novecento. Tanto per farti un esempio, i collant, il nylon, entra in commercio più di vent’anni dopo la sua invenzione, perché non sapevano come colorarlo. Allora, che cosa succede? Che quando noi guardiamo i dipinti del passato, come ad esempio le madonne in maestà o con Gesù bambino che sono avvolte da questo splendido manto azzurro, non ci rendiamo conto che quel tessuto non esisteva, semplicemente. Ovvero, nel Quattrocento esplode la moda, il gusto del color lapislazzulo, che è una pietra semipreziosa da cui si tira fuori un pigmento blu molto brillante. Quindi tutti i committenti, tutti i pittori cominciano ad usare questo colore raro, costoso, unico giacimento in Afghanistan, che conferiva un prestigio visivo ai dipinti. Il punto però qual è? Quello era un pigmento, cioè una terra usata per dipingere ma non era adatto a tingerci i tessuti, quindi nel Quattrocento noi vedevamo la Madonna vestita di blu nei quadri ma non esisteva nessuna donna vestita di blu nella realtà. Io la battuta che faccio sempre è probabilmente per un uomo del Quattrocento guardare una madonna in maestà era qualcosa di simile a quando noi guardiamo Jurassic Park, cioè tu vedi il dinosauro che si muove, è plausibile ma non esiste, in questo senso un effetto speciale.

Perché ti racconto questa cosa, o meglio, in che modo questa cosa si relaziona al design? Io mi ricordo che quando ho cominciato a studiare queste cose, arte design, comunicazione, il modello che ci veniva proposto come studenti sia da un punto di vista di basic design che di percezione visiva, era un modello un po’ gestaltico, un po’ basato sugli scritti di Arnheim, in cui la percezione era qualche cosa di veramente biologico, cioè: “Adesso ti dico le dieci cose che devi sapere”. A un certo punto invece, andando avanti negli studi mi sono reso conto che l’aspetto cruciale era metterlo dentro la storia questo discorso, cioè chiederci non solo il nostro sistema psicobiologico che cosa ci permette di vedere, ma anche che cosa si poteva vedere e non vedere nelle epoche passate. Io credo che questo salto di complessità di mettere le competenze progettuali dentro la storia sia sempre più fondamentale. 

PF: Quindi mi sta dicendo ci sono delle cose che noi vediamo oggi che magari esistevano in passato e nessuno le vedeva, e viceversa. 

RF: Esattamente. E secondo me nel design avere questa consapevolezza è centrale. 

PF: Quindi può essere anche, non so, penso al significato dei colori. Mi sono reso conto un po’ di tempo fa avevo messo due magliette a stendere. Mi sono reso conto che avevo messo una maglietta azzurra e una maglietta gialla una accanto all’altra e ho fatto la bandiera dell’Ucraina, che era una cosa che fino a tre anni fa non avrei neanche mai [visto], a malapena sapevo dove era l’Ucraina e molto probabilmente la bandiera non l’avevo ancora vista. 

RF: Questo è un aspetto, sicuramente. Non solo ma tu, oggi quel giallo e quel blu in relazione non li vedi solo culturalmente collegati a dei significati ma li percepisci anche con un’attenzione diversa. Oppure ti faccio un altro esempio. Tu pensa che il daltonismo è stato diagnosticato soltanto nell’Ottocento. Ora Homo Sapiens esiste da qualche anno in più, per millenni nessuno si era mai accorto che alcuni uomini non vedono bene i colori perché vivevano in un mondo pre-industriale dove non c’erano tutti questi colori. Cioè noi oggi siamo circondati da pennarelli, magliette, pareti, giocattoli, cioè il colore è tanto a disposizione. Fino alla rivoluzione industriale la gente era vestita di beige, di marrone, di bianco, a parte i ricchissimi non c’erano carte da parati o tessuti variopinti, quindi per millenni nessuno si era accorto che quei colori alcune persone non li vedevano.

PF: E oggi i colori, soprattutto nella comunicazione (penso in particolare alla moda) hanno un significato importantissimo proprio anche a livello di contenuto di identità. Mi spiego. Una mia studentessa poco tempo fa ha fatto un lavoro sulla logomania nella moda, quindi [uno studio del] marchio che diventa elemento decorativo. È arrivata a concludere che il futuro della logomania è la monocromia. Pensiamo al rosa Valentino ad esempio, il Pink PP che addirittura è diventato un Pantone, il blu Balestra, il grigio di Thom Browne. Siamo partiti dal dire che i colori non erano quasi esistenti, adesso diventano così parcellizzati che ci sono delle differenze minime e arrivano a diventare identità.

RF: Credo che questo sia molto vero, ma già in atto. Nel senso che in altri settori questa cosa da un punto di vista di di brand in senso lato è in atto da almeno cent’anni. Inutile citare rosso Coca-Cola, ovviamente il più famoso, ma se ti dico Tiffany tu hai in mente un certo tipo di colore che non descriviamo, e se ti dico la Ladurée, i macaron, è un colore simile ma leggermente diverso. Diciamo che questi meccanismi funzionano però su un pubblico attento se non proprio colto, cioè colto di quell’ambito culturale e merceologico. Però sì, è indubbiamente così.

PF: Una tua frase che amo tantissimo recita: “Per vedere abbiamo bisogno di un progetto”. Ad esempio ti ho sentito raccontare che quando vai nei musei, per portarti via una quantità sufficiente di informazioni vai con un’idea ben precisa che non è “vedere il più possibile” o “attraversare una cronologia”. Che cos’è questo progetto di ricerca visiva?

RF: Vedi, noi viviamo – come ci ripetono tutti – in una società piena di stimoli visivi e quindi è molto facile essere distratti. Anzi, il nostro vedere è un vedere distratto dove ogni tanto alcune cose attirano la nostra attenzione. A maggior ragione, avere un progetto significa decidere che cosa vogliamo guardare e da che cosa vogliamo imparare, o da che cosa vogliamo essere stimolati esteticamente emotivamente e via dicendo. Tu hai citato i musei. È è ovvio che non puoi entrare nel Louvre e guardare tutto, per apprezzare un museo come il Louvre devi entrare proprio con un progetto. Oggi voglio guardare determinate cose e può essere un autore, oggi guardo tutte le nature morte di Chardin. Oppure può essere un un dettaglio, un particolare, un oggetto. Questo funziona molto bene con i bambini: “Andiamo al Louvre, guardiamo tutti i cani e vediamo come hanno dipinto i cani”. Cani grandi, cani piccoli, barboncini, alani e là cominci a scoprire delle cose. Il cane grande ha un certo tipo, è legato a un certo tipo di di potere, ad esempio quello dei ritratti di stato. Il cagnolino è più legato alle figure femminili e [ai] bambini. Insomma, i cani raccontano tante cose politiche nei dipinti. Questo è un esempio fra mille. Ecco, questo che è un gioco che con i bambini si fa tanto per insegnare essere attenti ai dettagli, è qualche cosa che è fondamentale pure per gli adulti.

Paradossalmente non è così diverso dal fare shopping. Cioè, tu puoi pure entrare in un grande magazzino e guardare tutto quello che c’è, però se tu hai un progetto – tipo sto cercando una scarpa o una giacca – ti accorgi molto di più di quello che c’è a disposizione, di come puoi sceglierlo.

PF: Ti cito ancora una volta: “Non basta desiderare di dire delle cose. Bisogna desiderare di essere capiti perché se uno riesce a progettare la comprensione dentro c’è tutto il resto”. Progettare la comprensione: cosa vuol dire? È bellissimo!

Allora, questa che sembra una frase molto poetica in verità è una frase politica e polemica, nel senso che, con chi è la polemica? È con questa tendenza sempre più diffusa – che non è recente – del fatto che gli artisti e i designer mettono al primo posto l’esprimere loro stessi. Cioè, io ho la mia voce, devo esprimere questa mia voce, questa mia visione del mondo. È ovvio che questo è un elemento fondamentale. Un bravo designer, un bravo artista, uno scrittore, insomma chiunque ha un aspetto autoriale in quello che fa, è ovvio che ha un punto di vista sulle cose e vuole dirlo. Se però questo punto di vista non incontra una comprensione da parte di chi c’è dall’altra parte, del pubblico, dei contemplatori, degli ascoltatori, degli spettatori, è qualche cosa di autoreferenziale. E questo sfugge sempre di più, soprattutto con i giovanissimi studenti. “Perché hai fatto questa cosa? A me sembra non funziona”. “Ah, ma io volevo farla così perché la sentivo così, perché sto esprimendo me stesso”. Questo è un malinteso, nel senso [che] l’espressione del proprio punto di vista deve negoziare un punto d’incontro con chi ci sta ascoltando, con chi sta guardando. Questa tra l’altro è l’unica garanzia di professionalità, nel senso che se tu tieni conto del pubblico allora quello che stai facendo è una comunicazione di tipo professionale ed è sempre stato così quando parliamo di un registro alto. Altrimenti è hobby, altrimenti è il pittore della domenica. Anche nel design si può finire a essere pittori della domenica, cioè che lo fai, è un’attività nobilissima, ma la fai per il tuo mero piacere personale. Non è comunicazione. Allora, dicevo che è [una frase] polemica e anche un po’ politica perché secondo me questo aspetto va rimesso un po’ al centro e ce lo siamo perso criticando il mainstream. Siccome il mainstream è prono al pubblico allora è diventato chic rifiutare l’esistenza stessa di un pubblico. Insomma, serve un po’ di buon senso, una via di mezzo. In questo senso progettare la comprensione è – detto in maniera più prosaica – tenere conto di chi ci sta guardando, ascoltando, e tenere conto se quello che noi stiamo dicendo è comprensibile per loro.

PF: Quindi non vale solo per il design della comunicazione, vale per il design in generale quello che stai dicendo?

RF: Ma io ti direi che vale in tutti i rapporti interpersonali. Vale per qualunque forma di design. Poi a maggior ragione, se tu tieni conto di questo sistema di comprensione allora la rottura, la provocazione, l’incrinatura, anche l’aggressione [anche] piccola del pubblico ha più risonanza, altrimenti diventa un po’ un gioco fine a se stesso.

PF: In questo modo si rivaluta anche la figura del committente che sappiamo – ad esempio nel design industriale, ma in tutto il design che ovviamente presuppone sempre il commercio – è sempre molto molto importante. Va anche un po’ contro il mito dell’indipendenza totale del creativo.

RF: Io credo di sì. Credo che dobbiamo tornare a riprendere un po’ di misure nei confronti delle cose, perché anche [con] il discorso dell’autoproduzione completa – che ha degli aspetti indubbiamente affascinanti – bisogna stare attenti. Perché si rischia anche di finire in una secca e quindi non [bisogna] scordarsi che il mondo esiste, che il pubblico esiste che la committenza esiste e eventualmente ricavarsi degli spazi di autonomia all’interno di questo sistema.

PF: D’altronde anche chi va contro il mainstream comunque a qualcuno si rivolge. Tu puoi progettare la comprensione per un miliardo di persone o puoi progettarla per 100 persone. Però quelle 100 persone comunque meritano di essere comprese.

RF: Non c’è dubbio. L’altro rischio è che però questa comprensione avvenga solo tra addetti ai lavori o dentro l’accademia, dove per accademia intendo qualunque tipo di scuola. Cioè che tu progetti un sistema molto fascinoso per il gioco tra studenti, professori, conferenze, giornali, magazine, che però poi dopo non abbia una vita reale al di fuori di questo sistema. Che va bene finché stiamo parlando di sperimentazione, però, al solito, un po’ di buon senso.

PF: Ogni insegnante vuol far aprire lo sguardo, cambiare il punto di vista degli studenti. Ma avviene anche il contrario, per osmosi. Me ne rendo conto insegnando tanto: a volte il mio punto di vista viene messo in dubbio dalla visione, dal modo di vedere il mondo dei miei studenti e delle mie studentesse. Qual è la cosa più importante che tu ha imparato dai tuoi studenti? Come hanno influito sul tuo modo di vedere le cose?

RF: Credo che imparare dagli studenti sia qualche cosa che aumenta tanto più tu cresci, perché si crea una distanza generazionale. Io ho cominciato a insegnare a 28 anni. I miei studenti avevano quattro, cinque, sei anni in meno di me, eravamo coetanei, condividevamo lo stesso mondo. Diventando più grande quella distanza fa sì che loro siano il tuo gancio con alcuni elementi del presente. Allo stesso tempo Secondo me è molto importante avere a che fare anche con persone molto molto più grandi di noi. Per tenere allenata la mente sono sempre più convinto che dobbiamo frequentare persone di età molto diverse, cioè persone che hanno 90 anni e persone che ne hanno 7, perché è quello il vero confronto di punti di vista. Ed è qualche cosa che nelle società del passato era scontato perché non essendoci scolarizzazioni di massa si stava tutti insieme nei luoghi sociali o di lavoro. La scuola invece ha fatto sì che chi ha 14 anni stia spesso con chi ha 14 anni e questo questo è un po’ limitante, specie se tu punti ad avere una mente elastica e creativa. Quindi questo io ho imparato tanto dagli studenti, soprattutto negli ultimi anni. Adesso io spesso ho 30 anni di distanza dei miei studenti e un punto di vista sul presente che non è il mio. Spesso, paradossalmente, negli ultimi tempi – ma forse neanche tanto paradossalmente – più pessimista. 

PF: Spiegami…

RF: Io ho notato negli ultimi anni – e ovviamente è complice anche la pandemia – che chi oggi ha vent’anni è un po’ più disperato, non solo di quanto ero io a vent’anni (che non ero disperato, triste eventualmente, ma non disperato) ma di me è 50 [anni] e quindi questo è interessante perché anche questo è un punto di confronto. Cioè le aspettative, le idee che noi abbiamo – in questo caso si tratta del lavoro, di quello che è possibile fare – dipendono dal vissuto che hai avuto, dal momento storico in cui ti trovi. È ovvio che né il pessimista né l’ottimista hanno ragione, però parlare insieme ti aiuta a capire che cosa sta davvero accadendo.

PF: Il tuo contributo può aiutare a uscire un pochino da questa disperazione, andare in una direzione di un maggiore ottimismo, o pensi che sia una questione generazionale irrisolvibile?

RF: C’è una cosa in cui credo: lo studio. Io sono uno che legge e studia tanto e per studiare non intendo solo i libri. Lo faccio fin da ragazzino perché per me è stato il modo di darmi speranza fin da piccolo. Sapere le cose mi permetteva di gestire meglio il rapporto col mondo perché ero un bambino spaventato. E funziona, a 50 anni ti posso dire che funziona, perché se tu conosci non c’è niente da fare: la realtà diventa più maneggevole e maneggiabile. Quindi questo è quello che io faccio per loro, cioè gli dico: “Guardate che il tempo dedicato ad approfondire anche cose pratiche è qualche cosa che ti struttura. E ti struttura non solo il talento, le competenze, ma anche la tenuta psicologica. Questa è una cosa di cui si parla poco. Per fare mestieri dove si inventa, dove si crea, dove serve una tenuta psicologica, non basta avere una grande idea. Devi durare negli anni, quello fa la differenza. Quindi sì: penso da questo punto di vista di di contribuire in parte ad aiutarli, anche perché non essendo un loro genitore magari mi danno un po’ più retta. Se te lo dice mamma “devi studiare” lascia il tempo che trova.

PF: Mi collego al titolo del tuo TEDx che hai tenuto ad Arezzo qualche anno fa: “La benzina della creatività non è il talento, ma la conoscenza”. 

RF: È la conseguenza di quello che ti sto dicendo. Questo è il grande dilemma: talento e conoscenza sono opposti o stanno insieme? Ovviamente hai capito come la penso, per me sono l’uno inscindibile dall’altro. Per esempio [c’è] una cosa che io racconto sempre agli studenti. Loro hanno questa idea, che il talento c’è chi ce l’ha e c’è chi non ce l’ha, e il talento è inutile che studia perché tanto arriverà comunque. Grandissima sciocchezza. Né d’altra parte puoi studiare tanto perché se non c’è un po di scintilla non è che si va tanto lontano. Io l’esempio che faccio sempre è di tipo culinario: il ciambellone. Il ciambellone per crescere ha bisogno di due cose: del lievito e del calore. Queste due cose lavorano insieme. Se tu metti l’impasto nel forno spento, non lievita. Se tu metti l’impasto senza lievito nel forno acceso, non lievita. Per gonfiarsi il lievito deve interagire col calore. Se tu cominci a pensare che il lievito è il talento e il calore è la cultura, lo studio, è questo rapporto che fa sì che uno possa crescere. E devo dire che l’esempio il ciambellone funziona il più delle volte con i ragazzi.

PF: È bellissimo! Faccio anch’io molte analogie, uso molte metafore alimentari ma il ciambellone mi manca. Credo che me lo rivenderò. Funziona.

RF: Talento e conoscenza, insomma, devono andare insieme.

PF: Secondo te siamo circondati da troppe immagini oggi?

RF: È un dato di fatto. Troppe, poche, troppo poche, è già un giudizio morale. È un fatto. Se vogliamo rispondere all’implicita domanda morale che c’è [insita] è se questa cosa comporta delle perdite da un punto di vista di esperienza visiva o esistenziale: un po sì, perché torniamo alle cose da cui eravamo partiti. Le tante immagini ci rendono più distratti. Quando prima dicevamo [che] entri al Louvre e hai bisogno di un progetto altrimenti non vedi niente, è quello. Quindi bisogna darsi delle regole per imparare a guardare. Però, appunto, abbiamo citato il Louvre che ha quella mole di immagini da tre secoli, insomma non è Internet che ha invaso il campo. È qualche cosa che è iniziata prima, evidentemente.

PF: In questo io credo fermamente che i tuoi libri possano essere una sorta di guida, oppure – mettiamola così – di strumenti che aiutano a selezionare le cose che vale la pena guardare. Tutti gli “esercizietti” che metti all’interno [dei libri] – penso soprattutto a “Figure” – le immagini di varie dimensioni, l’uso del testo accanto all’immagine o sotto all’immagine, sono piccole porzioni della tua esperienza che però aiutano nella selezione. Sappiamo benissimo che quando si fa ricerca per arrivare al progetto, in mezzo ci sta la selezione, quindi la capacità di discernere, di scegliere, di decidere cosa far cadere dalla torre. Prima o poi questa cosa bisogna farla e dal mio punto di vista i tuoi libri in questo sono fantastici. C’era un tuo intento di questo genere?

RF: Allora, è una faccenda complessa, nel senso che quando ho cominciato a scrivere questi saggi nessuno, meno che mai io, avremmo mai pensato al successo che hanno avuto. Parlo proprio di successo commerciale, di interesse. Io mi ero detto: “Visto che le tecnologie di comunicazione sono in mano a tutti” – perché io comincio a scrivere tra il 2008 e il 2010, erano appena comparsi i social network – “visto che queste tecnologie ormai ce le hanno tutti, l’amministratore di condominio, il dentista, il direttore di un supermercato sa che esiste una cosa che si chiama Helvetica e una che si chiama Times, forse è arrivato il momento che questa possa diventare cultura generale”. Quindi questo è il ragionamento da cui ero partito. Diciamo che la mia ambizione era non tanto fare dei libri di divulgazione, perché la divulgazione è qualche cosa che – come dice la parola – “porta al volgo” un sapere. È quello che fa la televisione fondamentalmente. Io invece volevo parlare a un pubblico che fosse interessato all’argomento quindi non chiunque incondizionatamente. Quello che speravo era di riuscire a raggiungere un pubblico che facesse tutt’altro ma che fosse curioso, ovvero non tanto farmi leggere dai grafici ma dagli architetti, dagli ingegneri, magari dai disegnatori di moda, cioè delle persone che fossero in un campo affine al mio ma facendo tutt’altro. In questo modo tu riesci a non diluire troppo i concetti (perché altrimenti diventa mera aneddotica) e allo stesso tempo però costruisci dei ponti culturali. Quindi chi fa tutt’altro [può dire]: “Vedi, non avevo mai pensato che i grafici si occupassero di queste cose, che il colore fosse qualche cosa di culturalmente complesso e non soltanto una questione di gusto” (quello è il grande pregiudizio che c’è sul colore, che è tutta una faccenda di gusto). Quindi diciamo che questo è il presupposto fare una saggistica alta, documentata, non divulgativa come può essere divulgativa una trasmissione televisiva, ma sicuramente di intrattenimento. Ecco: una saggistica di intrattenimento.

PF: Tra i tuoi maestri citi [Alfred] Yarbus, ma anche [Alfred] Hitchcock, Le Corbusier, e persino Alice nel Paese delle Meraviglie. Quando e come ti hanno insegnato a guardare il mondo? Immagino siano arrivati in fasi diverse della tua crescita personale e professionale.

FR: Per me è difficile parlare di maestri perché mi sono trovato a fare il lavoro che faccio in fondo tardi e non è una cosa che ho scelto a monte. Io volevo fare il disegnatore di cartoni animati e quindi fin da ragazzino disegnavo, leggevo tantissimi fumetti, vedevo moltissimi film perché avevo capito che film e cartoni animati erano un po’ la stessa pasta. Però non mi era mai venuta in mente la grafica, anzi, mi sembrava una cosa anche abbastanza fredda, ma ne sapevo molto poco. Poi è successo che – per una coincidenza della vita – nel palazzo dove abitavo, abitava all’ultimo piano uno degli art director più importanti di quegli anni, tra gli anni ’70 e ’80 a Roma (ma non soltanto a Roma) che era Ferro Piludu, col Gruppo Artigiano Ricerche Visive. Era loro la sigla di “Lunedifilm”, quella storica che è andata per anni, con la colomba di pellicola che volava. Loro lavoravano moltissimo per la RAI e mia madre che sapeva questa cosa mi dice: “Ma se ti interessano i cartoni animati, va intanto a parlare con Piludu che sta a tre piani sopra, ha fatto i cartoni animati per la RAI e ti dà qualche consiglio”. Quindi io gli portai a far vedere i disegni che facevo e fu lui per la prima volta a dirmi: “Vieni in studio, vieni a vedere quello che facciamo, ci occupiamo di grafica”. E lì ho capito che esisteva questo mestiere. Parlando con lui e con la sua compagna dell’epoca ho cominciato a capire che era un ambito vastissimo. 

Vedi, prima di Internet tu conoscevi quel poco che aveva a disposizione. Io avevo a disposizione Topolino, Dylan Dog, insomma, avevo a disposizione l’edicola e qualche viaggio con i genitori e quindi qualche museo. Era un mondo completamente diverso, io neanche sapevo cosa fosse la grafica. Probabilmente se avessi chiesto ai miei genitori “chi è che fa la grafica dei libri” mi avrebbero risposto “gli architetti”. E a tutt’oggi molti sono convinti che sia così, ed è stato anche così. Abbiamo avuto degli architetti meravigliosi penso a Cerri. Ecco, Pierlugi Cerri per me è stato veramente un riferimento.

Perché ti racconto tutto questo? Ho deciso tardi [di fare il grafico] perché mi sono laureato in Lettere, poi ho studiato pittura, poi ho fatto grafica, poi ho studiato ceramica, ho fatto varie cose perché la mia ossessione era formarmi, cioè sapere tanto di tutto quello che riguardava il guardare, il vedere, il progettare. Non avevo dei miti da piccolo. Io vedo che ho degli studenti giovanissimi che a 18 anni sono pro [Massimo] Vignelli o pro [Milton] Glaser, hanno già il loro mito nella grafica. Io questo non ce l’avevo. Avevo molti miti ma sparsi, tipo Hitchcock perché mi piaceva quello che poi dopo, studiando all’università, ho capito che era il montaggio, o mi piacevano alcuni disegnatori di fumetti per l’uso che facevano del colore o della china. Insomma, era molto sparpagliato come panorama ed è uno sparpagliato di cui ho cercato negli anni di fare virtù. È poi il modo con cui funzionano i libri che scrivo, cioè di mettere insieme cose eterogenee. La storia della grafica, la storia del design io le ho cominciate a studiare da grande, intendo verso la fine dell’università. Quando ho trovato dei ragionatori – mi viene da dire, più che dei progettisti – che mi affascinavano ero comunque già grande per avere quella seduzione che tu hai nei confronti [di quelli di cui dici] “questo è il mio maestro, questo è il mio mito”. Poi indubbiamente ce ne sono stati. Praticamente uno è stato Ferro Piludu che mi ha insegnato il mestiere, l’altro è stato Giovanni Lussu, che aveva lo studio a due isolati da Ferro Piludu. Alla fine anche in questo il mondo è molto cambiato. Fino al 2000 il mondo della grafica era un mondo fatto di pochissime persone, 20 a Roma, 40 a Milano e un altro po’ sparse in tutta Italia. Oggi ovviamente è cambiato tutto perché siamo molti di più, soprattutto perché questa cosa, la grafica, l’abbiamo cominciata a insegnare all’università. Ecco, questo cambiamento fa sì che l’esperienza di chi ha studiato 30 o 40 anni fa non sia proprio comparabile con chi studia oggi, nel bene e nel male.

Quindi ci sono stati due maestri reali, fisici, due persone a cui sono legatissimo, e poi gli altri me li sono scelti per affinità elettive, come si dice. Ecco, se dobbiamo fare un po’ di campionato io sono più Glaser che Vignelli, ma per una ragione pratica, perché Glaser disegnava tanto e quindi questo me l’ha sempre reso simpatico. Poi prima ti ho citato Cerri, perché a un certo punto ho scelto la grafica perché la grafica era un pezzo dell’editoria. Se non ci fossero stati i libri di mezzo – che sono la mia passione – la grafica non mi sarebbe interessata così tanto. Infatti i primi anni mi sono occupato un po’ di tutto, di immagine coordinata, di loghi, di allestimenti, però poi appena ho potuto ho detto “voglio fare solo editoria”. Quella era la cosa che mi appassionava e in questo ho scoperto soprattutto [Robert] Massin (il grafico francese che aveva lavorato tanto per Gallimard) e da noi Pierluigi Cerri, che secondo me è una figura di cui si parla troppo poco perché [per] il suo rigore, la sua eleganza, la sua semplicità senza essere né fighetto né senza dare mai l’idea di fare dei prodotti “di design” (nel termine più deleterio possibile) [è stato] veramente un grande maestro. Però [è] poco seduttivo per gli studenti perché devi essere molto molto attento al dettaglio per renderti conto della sua maestria. Ho imparato veramente tanto provando a smontare, proprio a copiare le cose che faceva per capire come le faceva. Dici, “sono due righe di Garamond”. Sì, però a quel tono che devi allenare tanto l’occhio e la progettazione per riuscire a capirlo e a farlo eventualmente.

PF: Hitchcock e Le Corbusier?

RF:  Ma secondo me me sono la stessa persona, paradossalmente. Nel senso che sono due espressioni del Modernismo. Se il Modernismo è l’attenzione al montaggio, alla semplificazione, al costruirsi una propria grammatica fatta di pochi pezzi, una grande passione per i contrasti forti (in principale il bianco e il nero, sia in senso visivo che in senso metaforico) hanno tantissimi punti in comune. Hitchcock io lo trovo la figura più modernista del mainstream americano. Ci sono dei film che tu puoi mettere accanto a delle lezioni del Bauhaus, perché i principi che li reggono sono gli stessi, anche se poi erano destinati a pubblici diversi.

PF: Se tu fossi un coniglio, dove li terresti i guanti?

RF: Io mi perdo un sacco di cose, quindi dove terrei i guanti non è semplice da dire. Diciamo che mi piacerebbe tenerli sempre nel taschino della giacca, se per guanti intendiamo quel pezzo che ti serve per progettare, per inventare e anche per riconoscerti in quello che fai.

PF: Ricardo è arrivato il momento de La Raffica. Dieci domande, solo risposte secche, solo una possibilità di passare, solo una possibilità di argomentare.

RF: Risposte secche vuol dire che posso dire una frase o deve essere una parola?

PF: Più secca possibile, non mi piace dare troppi limiti.

RF: Una la posso saltare e solo una la posso argomentare.

PF: Esattamente.

RF: Commenterò l’ultima.

PF: Tinta unita o gradiente

RF: Tinta unita

PF: Serif o sans serif?

RF: Serif.

PF: Illustrazione o fotografia?

RF: Devo argomentare.

PF: Perché ti fai dei nemici?

RF: No, non mi faccio dei nemici. Devo argomentare per forza, nel senso che in questi ultimi tempi ho una grande passione per l’illustrazione. Mi piace lavorare con gli illustratori, però perché negli ultimi vent’anni siamo stati seppelliti da troppa fotografia dozzinale. Quindi se il fotografo è un grandissimo, bene. Però la foto stock ci ha un po’ saturato.

PF: Perfetto. Mattinata a studiare o a lavorare?

RF: Potendo, il desiderio in questo momento è studiare.

PF: Pomeriggio libero in un museo o in una biblioteca?

RF: In un museo.

PF: Serata per due al cinema o a teatro?

RF: A teatro.

PF: Marylin o Jackie?

RF: Marylin! Ma lo dico anche con un tono di giudizio. Marylin!

PF: Futurismo o Espressionismo? 

RF: Futurismo.

PF: Più libri da 50 pagine o più libri da 500 pagine?

RF: Più libri da 50 pagine, anche se io non scriverò mai libri da 50 pagine.

PF: L’ultima: mondo in 4:3 o in 16:9?

RF: 16:9.

PF: Ok, basta. Perfetto. Non hai passato niente!

RF: No, erano semplici. Un po’ manichee, ma semplici.

PF: Certo, certo. La domanda finale, che per te sarà piuttosto complessa, immagino. Consigliaci un libro per te importante. Ne abbiamo già citati tanti, ma [scegli] un libro che consigli agli ascoltatori di Parola Progetto.

RF: Vi consiglio un libro che non ha strettamente a che fare con l’arte e col design, anche se in realtà sì. Consiglio Nelson Goodman, che è un filosofo americano che ha scritto un libro che si chiama “I linguaggi dell’arte”, pubblicato in Italia da Il Saggiatore. Libro complessissimo (ci sono un paio di capitoli che ho dovuto rileggere quattro o cinque volte per riuscire a seguirlo) in cui lui si chiede a quali condizioni possiamo dire che qualche cosa è arte, design, comunicazione e via dicendo. Ma non vi consiglio questo. Ve ne consiglio un altro, sempre suo, che ha pubblicato Laterza in Italia e che si chiama “Vedere e costruire il mondo”, in inglese “Ways of worldmaking”. Ecco, io questa parola trovo stupenda, “worldmaking”, un’unica parola. Fondamentalmente il discorso che fa Goodman (ed è legato a quello che fa quando parla di arte e design) è: “rendiamoci conto che qualunque idea noi ci facciamo sulla realtà è un’attività di worldmaking, cioè io mi sto costruendo un’idea del mondo e costruendomi questa idea costruisco il mondo”. È un libro, appunto, di filosofia. Credo che il nucleo di fondo dei suoi ragionamenti siano vitali per chiunque si occupa di attività creative, di progettazione, di design, di arte, perché in fondo che cosa fanno artisti e designer? Worldmaking. E il punto non è se quello che tu hai costruito, inventato, progettato, sia vero o falso, non è lì, ma è la capacità di relazioni che tu riesci a costruire tra il tuo worldmaking e chi c’è dall’altra parte.

PF: E potrebbe anche – con un gioco di parole – diventare wordmaking, quindi “fare il mondo e fare le parole”. 

RF: Beh, lo sappiamo che è già così in fondo.

PF: Bene. Riccardo, grazie.

RF: Grazie a te, grazie mille.

 

 

 

La puntata registrata in studio a Roma il 12 maggio 2023 e pubblicata il 15 maggio 2023.

La trascrizione è stata effettuata utilizzando strumenti di intelligenza artificiale e successivamente editata dall’autore.

 

 

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